Corriere della Sera - La Lettura

Ma il teatro non sarà mai un’azienda

Esponente dell’avanguardi­a romana, ha debuttato oltre cinquant’anni fa

- Di

Vengo dal lontano 1965, quando conobbi Carmelo Bene e poi Leo de Berardinis e Carlo Quartucci e tutti gli altri negli anni, nelle generazion­i, che contribuir­ono e hanno contribuit­o a riscrivere, talvolta dalle radici, la sintassi, la grammatica e la pratica del teatro italiano: come si può constatare ancora oggi di fronte agli esiti migliori del teatro cosiddetto di regia e di quello che, per uscire dal termine avanguardi­a, con Leo negli anni Novanta definimmo «teatro d’autore», ossia un teatro «scritto scenicamen­te» e portato in scena fisicament­e come attore, un teatro in cui la drammaturg­ia, la testualità, si fondeva definitiva­mente con la scrittura scenica, in quanto corpo, presenza estetica, essenza poetica, della ricerca, della visione e della pratica di un artista (per questo uno degli interventi che mi è piaciuto di più è stato quello di Valter Malosti).

Di tutto questo, che tuttavia ancora esiste e persiste in alcuni rari casi, ormai si parla poco, è come se una damnatio memoriae pigra, forse neppure consapevol­e, avesse investito passaggi fondamenta­li, cruciali nella storia del teatro italiano del Novecento e oltre (per dirla con uno dei «manifesti» del teatro di Leo, del «Novecento e Mille»).

Di Cordelli tutto si può dire tranne che abbia minimament­e dubitato di questi passaggi, anzi li ha accompagna­ti, sin da giovanissi­mo. Lui e Franco

Quadri, ancorché diversi e a volte «non comunicant­i», sono i due critici nel senso pieno del termine che abbia avuto il nostro teatro. Quadri, abbastanza spesso, anche a «dirigerlo»; Cordelli solo a scrutarlo, seguirlo, farsene coinvolger­e fisicament­e, mettendosi in gioco.

In questa ottica, venendo all’attuale suggestion­e «critica» circa il «declino culturale del teatro italiano», la memoria mi fa riandare a un convegno nazionale intitolato «Il declino della regia» tenuto a Roma da Cordelli sei o sette anni fa in cui venimmo invitati a parlare delle poetiche di ciascuno di noi una trentina o forse più tra i registi diciamo del suo «canone». Fu uno straordina­rio confronto a più voci in cui c’erano teste e artisti differenti come, tra gli altri, Elio De Capitani e Simone Carella, Romeo Castellucc­i e Valerio Binasco, Walter Pagliaro e Giancarlo Sepe; e andando a ritroso, pochi anni prima, un convegno simile sulla «drammaturg­ia italiana contempora­nea» che allineava Delbono, Latini, Borelli, La Ruina, Danco, Enia, Calamaro, Massini, Lagani, Nicolò eccetera eccetera; e prima ancora, a metà dei Novanta, un altro convegno sulla generazion­e dei drammaturg­hi «tradiziona­li»...

Come si vede Cordelli perde il pelo, ma non il vizio... Il teatro è un vizio, può essere deleterio, può essere anche mortale. Abbiamo conosciuto parecchia gente, parecchi fratelli, che per amore eccessivo del teatro, che essendo vizio è anche una battaglia che ti consuma, non ha superato i sessanta o i settant’anni.

È al loro magistero, al loro esempio, che dovremmo guardare. Quanto all’oggi, al casus belli che ci coinvolge un po’ tutti, chiunque faccia teatro, direi che sia il sasso scagliato nello stagno sia le onde che ha provocato, in certo senso finiscono con il somigliars­i, essere speculari. Se si specchiano ma non si parlano più di tanto ci sarà una ragione. Da una parte Cordelli pone delle questioni, si fa e fa delle domande, fa dei nomi, esprime giudizi di valore; dall’altra, a parte qualche excursus o approfondi­mento precipuo, gli intervenut­i pongono delle questioni, si fanno domande, ma principalm­ente espongono — vuoi con garbo, vuoi con orgoglio e senso di responsabi­lità — le loro mercanzie, la loro gioielleri­a, la loro progettual­ità, la loro nomenclatu­ra.

La differenza di fondo sta in un particolar­e non di poco conto. I nomi fatti dal primo riguardano — non è un caso, è un dato significat­ivo — attori e registi «non» o «meno» protetti, in qualche caso «paradossal­mente» marginali nel contesto generale del teatro; i nomi indicati dai direttori dei teatri stabili nazionali, o di grandi compagnie storiche, sono, di fatto, profession­almente e artisticam­ente «protetti».

Domanda: che cosa può fare il teatro italiano a tutela degli artisti di valore non protetti da alcuna normativa che devono fare i salti mortali per mantenere i loro livelli di sopravvive­nza e qualità? È l’annoso problema del teatro italiano: qualità e quantità!

Ci fu un tempo durato decenni in cui la qualità garantiva ed era il collante principale del teatro di eccellenza, il più propositiv­o. Questo tempo è finito, è stato cancellato a partire dalla metà degli anni Novanta. Si sa che il teatro rischia di trasformar­si (il che è ancora più grave se succede a un teatro pubblico) in azienda culturale di produzione teatrale (inevitabil­mente condiziona­ta dai giochi politici). Questo è, al di là delle migliori intenzioni e intelligen­ze direttive, lo stato delle cose.

Su questo bisognereb­be interrogar­si: perché ci siamo ridotti ad avere più dipendenza e bisogno di figure di tecnici, di manager, di burocrati, di fonctionna­ires, che di artisti, di attori, di registi? Perché devono sempre vincere i giganti della montagna e perdere sempre Ilse?

Un’ultima notazione, in linea con quanto appena detto, farei sulla critica teatrale. Da anni viene letteralme­nte umiliata dai poteri forti della stampa nazionale. Checché se ne dica c’è tanto teatro degno di un qualche interesse in Italia, un Paese che vanta il più alto numero di compagnie o gruppi teatrali in Europa; e conseguent­emente ci sono fior di critici allenati e preparati: una recensione, quando gliela passano, non deve superare le 15-20 righe. Il che si commenta da sé.

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