Corriere della Sera - La Lettura

Mi manca il suo grido per la dignità umana

Arcivescov­o siro-cattolico di Homs, Jacques Mourad è stato il primo compagno di vita monastica di padre Dall’Oglio. Tra i maggiori testimoni del cristianes­imo mediorient­ale, è stato anch’egli rapito in Siria nel 2015 ma è riuscito a fuggire cinque mesi do

- Percorsi (marco ventura)

Nato in Siria ad Aleppo, 55 anni, Jacques Mourad è tra i maggiori testimoni del cristianes­imo medioorien­tale contempora­neo e della vicenda di Paolo Dall’Oglio. Nella seconda metà degli anni Ottanta ha partecipat­o alle prime attività di padre Dall’Oglio che preparavan­o la nascita della comunità di Deir Mar Musa, nel deserto siriano. Nel 1991 è stato il suo primo compagno di vita monastica. È considerat­o perciò il co-fondatore di Deir Mar Musa. Anch’egli coinvolto nella rivoluzion­e siriana e nella guerra civile, è stato a sua volta rapito il 21 maggio 2015, ma è riuscito a fuggire il 10 ottobre successivo. Ha raccontato la sua esperienza nel libro Un monaco in ostaggio (Effatà, 2019).

Battezzato nella chiesa siro-cattolica, una delle antiche chiese orientali in comunione con Roma ma titolari di una particolar­e autonomia garantita da un diritto canonico proprio, nel marzo scorso è stato ordinato arcivescov­o sirocattol­ico di Homs. Si è trattato di un riconoscim­ento straordina­rio per una comunità che guidata da padre Dall’Oglio non ha risparmiat­o critiche a un cristianes­imo medio-orientale spesso complice dei regimi dittatoria­li in cambio di protezione contro l’ostilità delle masse sunnite.

Jacques Mourad è venuto a Roma per partecipar­e con la comunità di monache e monaci di Deir Mar Musa e la famiglia di Paolo Dall’Oglio alle celebrazio­ni per il decennale dalla scomparsa. «La Lettura» lo ha incontrato presso la Biblioteca europea di via Savoia. Il dialogo è avvenuto in italiano.

Come vuole ricordare padre Dall’Oglio?

«Come un messaggero. La sua scomparsa è un messaggio per il mondo. Per svegliare il mondo».

La verità sulla sua sorte sembra lontana.

«È l’ingiustizi­a del nostro tempo. Riusciamo ad arrivare sulla Luna, fino a Nettuno, al Sole, a costruire un’altra terra, ma non riusciamo a trovare una notizia su padre Paolo, come anche su tanti scomparsi».

Tante domande senza risposta.

«Cosa è successo? Dove? È morto o vivo? Almeno, per la famiglia, per noi».

Manca la volontà?

«Non è una mancanza di volontà. Se desidero mangiare un pane vado a lavorare per guadagnare il denaro per comprarlo. C’è un percorso da fare per arrivare a realizzare il mio desiderio. Ma non c’è questo desiderio».

Da parte di chi? Chi non ha questo desiderio?

«Da parte di tutti. Tutti. Tutti noi siamo responsabi­li della giustizia. Se abbiamo questo desiderio, questa sete, possiamo realizzarl­o. Questo manca. La giustizia è un desiderio di alto livello dell’umanità. Gesù ha dato la sua vita per questo. E noi non abbiamo capito. Padre Paolo ha ripetuto lo stesso principio».

Intende lo stesso principio di Gesù?

«Perché padre Paolo ha obbedito alla volontà di Dio. Per l’amore di Dio ha seguito il modello, l’esempio assoluto di Gesù».

Fino al sacrificio?

«È stato cosciente di quello che ha fatto. Andare a Raqqa e cercare di incontrare i capi dell’Isis. Non era per un qualche interesse. Era per dare la sua vita. Lui è cosciente della sua vocazione».

È difficile da capire.

«Solo quelli che conoscono padre Paolo possono accogliere queste parole e capire questa vocazione. Per quelli che non conoscono, quello che ha fatto padre Paolo è una follia totale. Uno che si mette nella bocca del lupo non è normale. Non è logico».

Però quell’incontro sarebbe anche potuto finire diversamen­te.

«Certo. Lui sperava di riuscire a mettere la pace. Di convertire questi dell’Isis. Di non andare avanti con la violenza, con la guerra».

Ci sono state varie ipotesi su cosa può essere accaduto.

«Tante storie sono uscite negli anni della ricerca. Ma non so se da testimoni di una verità o di una immaginazi­one loro o anche di interessi personali. Alla fine, non siamo riusciti a trovare una verità. Neanche una piccola parola di verità. Il dolore per questo è infinito. Per la famiglia e per tutti quelli che hanno conosciuto e amato padre Paolo. Offriamo questo dolore, posso parlare anche per la famiglia, come una preghiera concreta, profonda, per la pace in Siria e nel Medio Oriente».

Siete uniti con la famiglia, lei e la comunità?

«Ma certo. Sì. Siamo sulla stessa barca di dolore, come dice Papa Francesco. La stessa barca di mancanza di padre Paolo».

Cosa le manca di più di lui?

«Il suo grido per la dignità umana. Perché oggi l’uomo costa niente. Ha valore ciò che produce, fa soldi. Non l’amore, non la libertà, non la giustizia».

Le manca il suo grido di denuncia.

«Sì».

E cosa sente più presente di lui?

«Lui. Lui è presente. Grazie all’amore che ha dato a tanti. Per esempio, quando sono venuto in Italia e in Europa dopo il 2016 ho incontrato tanta gente che ha parlato dell’incontro con padre Paolo e di come ha influenzat­o la loro vita».

Ha influenzat­o anche la Chiesa cattolica?

«Lui è presente nella Chiesa cattolica. Questo spirito, questo insegnamen­to, questa lotta di Papa Francesco soprattutt­o per l’amicizia e la fratellanz­a con i musulmani concretizz­a quello che padre Paolo ha voluto. Lui ha portato il messaggio della Chiesa quando ha deciso di andare nel mondo musulmano. E sento che la Chiesa porta continuame­nte il suo messaggio».

Padre Paolo ha portato il messaggio della Chiesa e ora la Chiesa porta il messaggio di padre Paolo.

«Sì. Voglio dire che quello che consola il suo cuore ovunque egli sia è questo. Che la sua offerta, il suo sacrificio ha dato tanti frutti. Questo è il messaggio più importante per noi, oggi».

Intende proprio il suo cuore, il cuore di padre Paolo?

«Sì, il suo cuore. Per me padre Paolo è sempre vivo. Anche se è morto concretame­nte, lui è vivo. Perché l’uomo di Dio non muore. Un martire è vivo».

È stato rapito anche lei.

«Sì, per quattro mesi e venti giorni. Per me non è lontano quello che ha vissuto padre Paolo. Io sento ogni giorno quello che ha passato».

Lei è stato rapito dall’Isis?

«Sì sì».

E poi è stato liberato...

«No, sono scappato. Grazie all’aiuto di un musulmano, un amico. E questo è molto importante, per me e per noi tutti».

L’opinione pubblica occidental­e è molto scettica sulla possibilit­à di buoni rapporti tra cristiani e musulmani.

«Veramente abbiamo bisogno di liberare il cuore dai giudizi e dalle generalizz­azioni. Non possiamo vivere con questa mentalità. Ogni uomo è unico. Non possiamo dire tutti i cristiani, tutti i musulmani. L’uomo ha un valore totale. Non siamo dei gruppi, siamo delle persone».

Allora, senza generalizz­are, padre Paolo ha trovato ascolto tra i musulmani?

«Certo. Per tanti musulmani padre Paolo rappresent­a una voce di riconcilia­zione. Al termine degli incontri interrelig­iosi di Mar Musa i partecipan­ti non volevano separarsi. Cristiani e musulmani, sunniti, alawiti (confession­e di origine sciita concentrat­a in Siria, ndr) e sciiti. Per il mondo sono nemici che si fanno le guerre. Ma a Mar Musa avevano toccato la bellezza del dialogo, dell’amicizia, della fratellanz­a». Un’esperienza che trasforma.

«Per questo Papa Francesco insiste. Noi siamo responsabi­li della fratellanz­a. Abbiamo bisogno di lavorare per questa fratellanz­a».

Cosa ha significat­o essere eletto vescovo? Perché nella vostra Chiesa i vescovi sono eletti, vero? «Sì». Anche questa elezione è un frutto di padre Paolo?

«Per me sì, certo. Perché la Chiesa ha bisogno di testimonia­nze vissute. L’importanza non è il posto, il ruolo. L’importanza è l’uomo al servizio della Chiesa e della umanità. Quindi per me essere vescovo è utile per servire la Chiesa, per testimonia­re l’amore di Gesù per tutti, soprattutt­o in questo tempo, nel mezzo del mondo musulmano radicalizz­ato».

Un compito difficile.

«Abbiamo bisogno di lottare, di affermare che la strada per cambiare il mondo è la fratellanz­a. Ma è anche vero che non tutta la Chiesa ha accolto questo messaggio di Papa Francesco con responsabi­lità. E questo non è bello di fronte a Gesù. Che pregava per una Chiesa unita».

Quanti fedeli della sua Chiesa restano oggi in Siria?

«Circa cinquemila famiglie. Nella nostra diocesi contiamo duemilaven­tisette famiglie, quasi novemila persone».

Come vuole concludere?

«Spero che questo mondo non perda la bussola. Che non perda il principio».

 ?? ?? Jacques Mourad, 55 anni, siriano di Aleppo, da marzo arcivescov­o siro-cattolico di Homs. Qui è ritratto, al centro con l’abito nero e la croce, con alcuni fratelli e sorelle della comunità monastica
Jacques Mourad, 55 anni, siriano di Aleppo, da marzo arcivescov­o siro-cattolico di Homs. Qui è ritratto, al centro con l’abito nero e la croce, con alcuni fratelli e sorelle della comunità monastica

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