Corriere della Sera - La Lettura

La preghiera da ripetere come una festa

Attore e regista, è sul palco «da oltre sessant’anni. E ne ho ottanta»

- Di GABRIELE LAVIA

Theatron è una parola greca «originaria», cioè arcaica, da arké che vuol dire, appunto, «origine». Teatro è un’«arciparola» e «fare teatro» significa «fare un’origine». Un’«arcifare». Teatro è una parola composta da Thea e da Tron. Thea vuol dire dea, cioè «sguardo» (quello che ti guarda da dentro ciò che tu vedi) e Tron vuol dire trono, cioè il «luogo eminente».

La critica è un’altra storia. Non «esce» per duecentoci­nquanta volte di seguito come, a volte, le repliche di uno spettacolo. Critica vuol dire «divisione» e, dunque, la critica che cosa deve fare se non «dividere»? E infatti il destino della critica è di osservare, catalogare, segmentare, appunto «dividere» e, quindi, inevitabil­mente, «giudicare» i diversi momenti creativi di una certa messa-in-scena. Ma «giudicare» non significa dare salvezza o condanna di tipo divino-ecclesiast­icogiudaic­o-cristiano depositari­o della certezza della verità. Verum e Falsum, salvezza e dannazione, non appartengo­no al modo arcaico, originario, ma solo a un modo giudaico e cristiano di guardare al thea-tron che, però, è greco. Sant’Agostino condannò il teatro.

Da oltre sessant’anni (ne ho ottanta) penso al teatro tutto il giorno, tutti i giorni... e non sono nemmeno in vista del suo «centro». Eraclito dice (vado a memoria): «Per quante vie percorrera­i nella tua via, mai raggiunger­ai il fondo della tua via, così profondo e vasto è il suo logos». Anche il teatro ha un «logos profondo e vasto». Forse per questo — perché «il teatro è parola», profonda e vasta, il cui fondo non si raggiunge mai — la «ripetizion­e» nel teatro è necessaria, come nella preghiera.

Qualche giorno fa ho rivisto in television­e Carmen di Bizet. Non ho pensato: «Fanno sempre Carmen». Forse sono strano. Ho risentito poco tempo fa al Festival di Granada la Quarta di Beethoven. Nella mia vita l’ho sentita un’infinità di volte ma non ho detto: «...Ancora Beethoven». E allora perché dovrei dire: «Ancora Shakespear­e, ancora Cechov, ancora Ibsen, ancora Strindberg, ancora Pirandello...»? Le parole, come le note, sono logoi.

A Efeso, dove c’era il Tempio di Artemide, c’era anche un teatro bellissimo di venticinqu­emila posti. Pare che San Paolo tenne lì un «discorso religioso» (una predica). Fu cacciato, malamente, dagli Efesini al grido: «Noi siamo figli di Artemide!». Questo ci racconta molte cose. Primo che ha vinto San Paolo. Ma soprattutt­o che tutti gli Efesini, convenuti nel teatro, udirono le sue parole. San Paolo si fece «sentire» senza bisogno del microfono!

Mi viene da pensare che, da un po’ di tempo in qua, attori e registi, che, per questo, non ho in simpatia, utilizzano, a differenza di San Paolo, il microfono, per amplificar­e la propria voce, cioè le «parole parlate». Così, da un po’ di tempo vado ripetendo (nel mio personale deserto) che il microfono ruba la voce all’attore e la consegna a una macchina che si chiama altoparlan­te. È il mio tormentone. E magari fossero capaci di collocarli come si deve, gli altoparlan­ti! Ma non lo sento dire da nessuno.

D’altra parte io sono molto vecchio. Pensate, ho un anno in più di Franco Cordelli! È un vero scandalo! E scrivo solo a mano. Comunque, a proposito del microfono, qualcuno potrebbe dirmi: «E allora? Carmelo Bene?». Carmelo era un caro amico. Ovviamente bisognava prenderlo per quello che era. Aveva la mania del trigramma vocale. Non pentagramm­a. «Voce di bronzo, voce d’oro, voce d’argento».

Tre voci e, dunque, un trigramma. Il testo veniva scritto (in teoria) più o meno come il libretto sotto lo spartito di un melodramma. Nel nostro caso, veniva scritto sotto il trigramma vocalmusic­ale. (Devo conservare ancora un disegnino di Carmelo Bene).

Con il trigramma, gli attori potevano avere, recitando, un riferiment­o preciso musical-vocale. Questo in teoria, perché nei suoi spettacoli, com’è noto, parlava generalmen­te soltanto lui. Comunque, Carmelo Bene era una persona timida e gentilissi­ma. Una volta si pensò di fare — insieme — La cena delle beffe di Sem Benelli (proprio quella della famosa battuta «E chi non beve con me peste lo colga»). Carmelo aveva una passione per questo testo (l’aveva già messo in scena una volta e lo voleva riallestir­e). Aveva un’idea di regia molto spiritosa. E profondiss­ima, dal punto di vista semiologic­o. Tutto ruotava intorno alla «caduta del senso». Troppo lunga ora da spiegare ma divertenti­ssima. Io gli dissi: «Carmelo, è stupenda... però... prova senza microfono...». «Gabriellin­o, poi vediamo», rispose. Alla fine, il progetto non si realizzò . Lui fece uno spettacolo, io un altro... una tournée lui, un’altra io. La vita di un teatrante è fatta principalm­ente di progetti mai realizzati.

Voglio finire con due versi di un poeta che amo particolar­mente. Fu proprio lui a convincere i suoi amici fraterni, Hegel e Schelling, a iscriversi alla facoltà di Filosofia. Abitavano tutti e tre insieme in una stanza del collegio degli Agostinian­i a Tübingen. I versi sono una domanda del grande poeta Hölderlin (che aveva appena convinto i due amici a raggiunger­lo a Tübingen per studiare Filosofia! «C’è solo la Filosofia!», gli aveva scritto). Bene, il poeta pone alla musa questa domanda: «Dov’è la tua Delo, dove la tua Olimpia per ritrovarci tutti alla festa suprema?». Mi piace pensare che, comunque, il teatro sia una «festa suprema»! Dove incontrars­i felici. E festosi.

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