Corriere della Sera - La Lettura
La mafia giovane fa paura
Poliziotto e scrittore, Silvis, ex questore di Foggia, ha dedicato indagini e libri al crimine
«Quella di Foggia e provincia è una mafia giovane». Da che punto di vista? «Prima di tutto storico. La “società foggiana” nasce all’inizio degli anni Ottanta, un’epoca recente».
E questo cosa comporta?
«Che è molto aggressiva, spregiudicata».
Si può fare il paragone con un ragazzo che riflette poco e non ha senso del limite?
«Direi di sì. È una mafia che non è ancora diventata adulta. E quindi, come un adolescente inesperto, fa danni. E incute molta paura ai cittadini».
Ecco, spiegare la paura. La chiave sta qui. La paura è la motivazione per un numero di denunce vicine allo zero. È il tratto comune di una società che sembra piegata alla criminalità. Piernicola Silvis a Foggia è nato; da poliziotto, è stato capo della squadra mobile di Vicenza e Verona, poi capo di gabinetto ad Ancona, e come ultimo incarico della sua carriera è tornato a Foggia, dove è stato questore tra il 2014 e il 2017. Tra le faide, i codici e la ferocia della mafia foggiana ha ambientato i suoi due primi romanzi di successo, Formi
cae (2017) e La lupa (2018), entrambi editi da Sem. Da quando ha lasciato la polizia, è uno scrittore a tempo pieno. E continua a indagare i grandi sistemi criminali, sia con la letteratura (La pioggia, sempre Sem, è del 2021), sia con la saggistica (Capire la mafia è uscito l’anno scorso per Luiss university press).
Dunque, proviamo a spiegarla, quella paura.
«Io l’ho sentita la deflagrazione delle bombe. Ho sentito gli scoppi dal mio ufficio, o di notte da casa mia. Soltanto chi ha vissuto un’esperienza simile sa che cosa significa. È oggettivamente spaventoso».
Qual è il collegamento tra la paura delle
persone e il concetto di «mafia giovane»?
«Le altre due mafie, cosa nostra e ’ndrangheta, che devono primeggiare col consenso, usano la violenza solo se necessaria. A parte il periodo degli omicidi eccellenti e delle stragi in Sicilia, che però è stato dovuto quasi solo alle scelte di Salvatore Riina».
I clan foggiani, invece?
«Vogliono comandare con la forza, e dunque vogliono spaventare: con le bombe davanti ai negozi messe, a volte, anche senza criterio».
Spaventare per spaventare, o per strategia?
«Certo, è una strategia quasi terroristica. Il risultato è che si è creato un clima generalizzato di estorsione. Chi deve aprire un negozio o una qualunque attività, prima che in Comune per le pratiche, va dal soldato di zona. È ormai nel Dna delle persone. La paura, purtroppo, è del tutto comprensibile».
Le origini «La “società foggiana” è nata all’inizio degli anni Ottanta, un’epoca recente. Perciò è molto aggressiva, e spregiudicata»
Gli appelli ad affidarsi allo Stato e denunciare non ottengono alcun risultato?
«Noi l’abbiamo sempre detto, dovete denunciare. Ma le persone hanno paura. Quando ero questore abbiamo avuto il caso di un uomo che resisteva alle minacce, e abbiamo
strada e la situazione era quella».
Oggi forse meno evidente, una violenza più nascosta. Eppure Pugliese e i suoi soci nel recupero delle terre di Mastrangelo hanno affrontato furti e sabotaggi. Poco dopo l’inaugurazione qualcuno ha tagliato e divelto con la fiamma ossidrica l’intera cancellata all’ingresso della tenuta. «È stata dura, più di una volta mi sono cadute le braccia».
Ma alla fine, grazie anche al sostegno di Fondazione Con il Sud, la cooperativa è riuscita a costruire un progetto sociale che occupa lavoratori svantaggiati, produce ciliegie, limoni, uva, olive, grano, li trasforma in sughi, pasta, olio, marmellate e li vende in attivo.
Splendido esempio, ma all’interno di migliaia di chilometri quadrati di paura. Lo denuncia in prima fila il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro, dalla cittadella del Palazzo di Giustizia che da sola copre l’intera Capitanata: «Oltre diecimila processi pendenti, una giurisdizione che va da Vieste a Cerignola: come facciamo in queste condizioni ad essere vicini al territorio?». Se quasi nessuno denuncia; se dalle estorsioni alle rapine ai furti in campagna l’istinto è di bypassare le istituzioni e tentare di risolvere da sé, la colpa, sostiene il magistrato, è anche di una riforma della geografia giudiziaria che ha lasciato sguarniti settemila chilometri quadrati di territorio impervio, mal collegato, con una bassa densità abitativa. «La vittima si sente isolata». «Nel 2017 eravamo io, i defunti, i parenti dei defunti e nessun altro»: Lazzaro D’Auria è un solitario imprendivissuto tore agricolo che ha rifiutato il pizzo e sporto denuncia. «Adesso a Foggia si sta muovendo qualcosa ma per anni sono stato l’unico».
Il modo in cui i mafiosi l’hanno avvicinato è stato da manuale: un furto in campagna, il tentativo di un «cavallo di ritorno», ovvero la restituzione in cambio di un compenso. Quindi la proposta, leggi l’imposizione, di un servizio di «guardiania». «Prima in modo amichevole, poi cattivo, infine armato». Un’estorsione mascherata da costo d’impresa, come se fosse una voce da mettere nel registro. «È diventata una tassa feudale — sostiene D’Auria — il costruttore, l’agricoltore, paga regolarmente la persona messa lì dal capomafia. Nel lassismo generale, chi più chi meno hanno tutti un contatto con la criminalità. Chi ha provato a opporsi, Panunzio, Marcone (direttore dell’ufficio del registro di Foggia ucciso nel 1995, ndr), Ciuffreda (imprenditore edile assassinato nel 1990) è stato eliminato. E la mafia ha preso possesso del territorio». Con un guadagno che D’Auria stima in 40 milioni di euro l’anno solo dai balzelli imposti sui campi. «Basta fare i conti con le colture e le tariffe del pizzo»: 50 euro a ettaro di grano, 300 per i pomodori, 500 per i vigneti e così via.
Il testimone l’ha raccontato ai magistrati, alle forze dell’ordine, alla Commissione parlamentare antimafia. Ha innescato processi e si è costituito parte civile. Risultato? «Vivo sotto scorta con moglie e bambini; le banche mi hanno classificato a rischio e tolto gli affidamenti, nonostante i bilanci in attivo. Francamente, la vita mi si è molto complicata».