Corriere della Sera - La Lettura
Il welfare per i figli
Mila nascite 393 mila 279 mila
Ormai da diverso tempo Roberto Volpi, su «la Lettura», insiste sul calo della natalità come un problema di gravità assoluta sul quale vanno concentrati gli sforzi per porvi rimedio. Abbiamo chiamato a confrontarsi con lui la ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità Eugenia Roccella (FdI), il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi (Pd), responsabile per il welfare dell’Associazione dei Comuni, e il politologo Maurizio Ferrera.
MAURIZIO FERRERA — Il calo della natalità dovrebbe essere prioritario nell’agenda politica, perché ne deriva un declino della popolazione che gli stessi flussi migratori non sembrano in grado di controbilanciare e che rischia di diventare inarrestabile. Il problema è particolarmente grave in Italia, come in Giappone e Corea del Sud, ma interessa tutti i Paesi avanzati. Persino la Svezia e altri Stati dove il sostegno alla natalità è stato più generoso si trovano al di sotto della soglia di 2,1 figli per donna, che assicura una popolazione costante. La questione in realtà riguarda l’intera specie umana, perché i tassi di natalità sono ancora relativamente alti nei Paesi sottosviluppati, ma altrove non assicurano più il ricambio delle generazioni.
Come si può rimediare?
conversazione tra EUGENIA ROCCELLA, LUCA VECCHI, MAURIZIO FERRERA e ROBERTO VOLPI a cura di ANTONIO CARIOTI
MAURIZIO FERRERA — A mio avviso si tratta di intervenire sull’attuale disallineamento tra orologio biologico delle donne, un’età fertile che inizia e finisce troppo presto, e l’orologio sociale, che prevede un lungo percorso di formazione prima dell’ingresso nel mondo del lavoro e del conseguimento della sicurezza economica, presupposto della decisione di avere figli. Bisogna quindi sforzarsi di risincronizzare i due orologi. Occorre agire in primo luogo sull’orologio sociale con una riorganizzazione incisiva del ciclo di vita, rendendo l’istruzione e il primo impiego compatibili con una gravidanza e promuovendo una piena parità tra uomini e donne nella distribuzione degli oneri nel lavoro di cura.
Si può intervenire anche sull’orologio biologico? MAURIZIO FERRERA — Il tema è molto delicato. «The Economist» tempo fa ha pubblicato un rapporto sulla questione: si pensa di rallentare l’orologio biologico attraverso particolari tecniche mediche. Di certo la sincronizzazione è una sfida per l’intero genere umano.
EUGENIA ROCCELLA — Il tema demografico è al centro dell’impegno del governo. La stessa denominazione del mio ministero lo dimostra. Ed è la prima volta che questo avviene in Italia. Il problema del resto ha una portata mondiale. Tutti gli allarmi sulla «bomba demografica» si sono rivelati infondati e le politiche antinataliste promosse dalle organizzazioni internazionali hanno avuto fin troppo successo. Oggi le proiezioni ci dicono che si va verso un declino della popolazione a livello globale. E Paesi come la Cina, che pure è stata premiata dall’Onu per la sua politica del figlio unico, cercano faticosamente di tornare indietro. Ma promuovere la natalità
società di oggi è molto più difficile che frenarla, anche per fattori culturali. Eppure è necessario: non solo perché l’invecchiamento della popolazione rende insostenibili il welfare e il sistema sanitario, ma anche perché compromette la vitalità di un Paese.
Che cos’ha in mente il governo per rimediare?
EUGENIA ROCCELLA — Non a caso nel nome del mio ministero la Natalità è abbinata alle Pari opportunità. Le due questioni sono collegate. L’organizzazione del lavoro e del welfare è datata, non è a misura delle esigenze femminili. Tant’è vero che nelle rilevazioni demoscopiche le donne italiane dicono di voler avere due figli, ma poi non li fanno. Nel nostro Paese la maternità è molto protetta, ma in maniera antiquata, senza considerare i bisogni, gli stili di vita, le opportunità che le donne hanno al giorno d’oggi. Il problema è adeguare gli interventi, partendo da una giusta considerazione della differenza femminile.
Che cosa significa?
EUGENIA ROCCELLA — Basta pensare alle dimissioni dal lavoro dopo la maternità o alle differenze retributive e di carriera che tuttora esistono tra uomini e donne, spesso causate proprio dalla difficoltà di riprendere il percorso professionale dopo una gravidanza. Si deve spartire il più possibile il lavoro di cura tra madre e padre, ma la gravidanza, il parto e l’allattamento al seno sono un’esclusiva delle donne. E oggi non vengono agevolati. Per esempio più di metà delle donne non si sente sostenuta nel percorso dell’allattamento.
LUCA VECCHI — Oggi le giovani coppie vivono spesso la fase dell’età destinata alle decisioni procreative in condizioni di precarietà lavorativa e di forte incertezza sul proprio futuro. Bisogna cambiare il segno dell’emozione collettiva dominante, volgendolo verso la fiducia e la speranza. Quindi vanno rimossi gli ostacoli che i giovani, e in particolare le donne, incontrano nel loro progetto di vita.
Con quali misure?
LUCA VECCHI — Un primo settore su cui intervenire è quello dei servizi educativi per l’infanzia. Dove è elevata la scolarizzazione della prima infanzia, è alto anche il tasso di occupazione femminile e avere un figlio è meno problematico. Occorre inoltre ridurre i forti livelli di diseguaglianza retributiva che registriamo in Italia tra uomini e donne. Poi c’è una grande questione della casa. Il diritto all’abitazione oggi è fortemente condizionato. Una giovane coppia fatica non solo a comprare un appartamento, ma anche a trovarlo in affitto. E in queste condizioni non si sente certo incentivata ad avere figli. Alla mia generazione, quella dei cinquantenni di oggi, la società prospettava un percorso chiaro: studiare, trovare un posto di lavoro, formare una famiglia, comprare una casa, avere dei figli. Oggi l’incertezza delle prospettive rende tutto assai meno credibile.
ROBERTO VOLPI — Sarò una voce fuori del coro. Non ho sentito nei vostri interventi la consapevolezza dell’urgenza e della drammaticità della nostra situazione demografica. È vero che la crisi della natalità riguarda quasi tutti i Paesi avanzati, ma fare rientrare l’Italia in quel contesto è un errore clamoroso, perché noi siamo ben oltre la crisi, siamo al tracollo demografico. Il nostro Paese è passato dalle 577 mila nascite del 2008 alle 393 mila del 2022 e quest’anno scenderemo sotto le 390 mila. Abbiamo perso 184 mila nascite in 14 anni, un terzo del totale. Inoltre le donne in condizione di avere figli sono sempre di meno. Quest’anno entrano nell’età feconda 279 mila quindicenni e ne escono 476 mila cinquantenni. Ne perdiamo quasi 200 mila in un anno, ne perderemo due milioni nei prossimi dieci.
Questo compromette il nostro futuro?
ROBERTO VOLPI — Certamente: la Population Division dell’Onu osserva che i tre quarti delle tendenze demografiche future sono già inscritte nella struttura per età e per sesso di oggi. Abbiamo di fronte un quadro di assoluta gravità. Bisogna agire subito, perché non c’è più tempo. Invece il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che avrebbe dovuto dare priorità al tema demografico, non prevede assolutamente nulla. Non servono peraltro le classiche misure nataliste a lungo termine, che avevano un senso quando c’era una platea di donne a cui rivolgerle. Oggi invece abbiamo una percentuale di donne in età feconda, 38,6 per cento, che è forse la più bassa del mondo. Occorrono una determinazione e un’inventiva che non vedo nella classe politica. Certo, il governo Meloni ha cominciato a porsi il problema. Ma non basta: di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno.
A questo proposito su «la Lettura» Volpi ha proposto di versare un sussidio di 500 euro mensili alle coppie che mettono al mondo il secondo bambino, fino alla maggiore età del figlio e anche oltre. Che ne pensate?
MAURIZIO FERRERA — Il caso italiano è indubbiamente anomalo e Volpi ha ragione nel parlare di tracollo demografico. Purtroppo nessuno ha la bacchetta magica. I provvedimenti che possono servire per ristrutturare gli incentivi alle giovani coppie, in modo che siano più motivate a procreare, prendono tempo per avere effetti. Questo non significa ovviamente che non si debba agire. Penso però che sia sbagliato anche puntare su un solo strumento. L’assegno di 500 euro per il secondo figlio è un’idea valida, in Polonia l’hanno già adottata, ovvia
Una famiglia radicale Luca Vecchi,
Maurizio Ferrera,
La società del Quinto Stato (Laterza, 2019); La verità al potere (con Franca D’Agostini, Einaudi, 2019); Rotta di collisione (Laterza, 2016); Il fattore D (Mondadori, 2008). Roberto Volpi, nato a Ponsacco (Pisa) nel 1946, è un esperto di statistica. Ha lavorato nella pubblica amministrazione e si è occupato di progettazione di sistemi informaticostatistici. Ha pubblicato per Solferino due libri: Gli ultimi italiani (2002) e In quel tempo (2023) mente nella moneta locale perché non hanno l’euro, e hanno ottenuto un aumento del tasso di natalità. Però l’armamentario delle misure dev’essere più ampio o si rischia di produrre effetti controproducenti.
Per quale ragione?
MAURIZIO FERRERA — Oltre alla bassa propensione ad avere figli delle donne italiane, c’è anche un problema di elevata inattività. E se la donna non lavora, il reddito della famiglia risulta basso rispetto alle esigenze. Dove il tasso di attività femminile è più alto, la povertà delle famiglie è inferiore. In Italia il 50 per cento delle famiglie è monoreddito, in Germania sono la metà. In molti Paesi poi c’è il fenomeno di un reddito e mezzo: un coniuge lavora a tempo pieno e l’altro, solitamente la donna, ha un part time. E così si evita la povertà. Non vorrei che l’assegno di 500 euro a partire dal secondo figlio finisse per disincentivare le madri a entrare nel mercato del lavoro. In Italia purtroppo abbiamo un alto tasso di donne che lasciano l’impiego alla nascita del secondo e a volte anche del primo figlio. Rimanere a casa dopo avere lavorato non solo incide sul tenore di vita delle famiglie, ma risulta anche assai frustrante. Per questo molte donne in attività ritardano la procreazione.
Che cosa si può fare?
MAURIZIO FERRERA — In altri Paesi europei i giovani che vogliono staccarsi dalla famiglia di origine e formarne una propria ricevono un aiuto dallo Stato per pagare l’affitto. Poi ci sono altre provvidenze mirate: borse di studio, assegni per la formazione. Oggi si parla molto di lotta alle precarietà, ma la s’intende solo come tentativo di procurare ai giovani un lavoro a tempo indeterminato. Ma il mercato offrirà in misura sempre minore contratti del genere. I giovani dovranno abituarsi a realizzare le proprie aspirazioni anche in un regime lavorativo flessibile. E nei periodi di disoccupazione occorrerà sostenerli con quelle che io chiamo le «ringhiere» del welfare: trasferimenti e servizi che consentano di superare le fasi di difficoltà. Il nostro welfare andrebbe rivoltato interamente, perché è tutto proiettato sulla protezione della vecchiaia. Nonostante le riforme, tuttora l’età media di pensionamento è intorno ai 62-63 anni. Così si assorbe una quantità ingente di risorse che non possono essere usate per incentivare la natalità e tamponare la situazione di tracollo demografico descritta da Volpi.
EUGENIA ROCCELLA — Io condivido il senso di urgenza trasmesso da Volpi. Il problema è che in Italia siamo all’anno zero. Mentre in molti altri Paesi una politica di sostegno alla natalità è stata attuata già da tempo, da noi il primo provvedimento incisivo è stato l’assegno unico per i figli a carico approvato nella scorsa legislatura, un tentativo ancora insufficiente, che peraltro il nostro governo sta difendendo perché è sotto procedura di infrazione in Europa. C’è bisogno di porre questo tema al centro con misure importanti.
Che cosa ha fatto finora il governo?
EUGENIA ROCCELLA — Abbiamo deciso di affrontare il problema in maniera trasversale, non affidandolo soltanto al mio ministero, che tra l’altro è senza portafoglio, ma considerandolo prioritario in tutta l’azione di governo. Nella nostra prima legge di bilancio, realizzata in una situazione che ci poneva grossi limiti sia di risorse che di tempo, abbiamo potenziato l’assegno unico con aumenti del 50% per il primo figlio e dal terzo in poi, e con una sostanziosa maggiorazione forfettaria per le famiglie numerose: queste ultime sono una percentuale bassa dei nuclei famigliari, ma i loro figli sono una quota significativa, intorno al 18 per cento. Abbiamo inoltre aumentato la possibilità di ottenere fringe benefit, compensi in forma non monetaria, per i lavoratori con figli. Abbiamo salvaguardato le famiglie con figli nel provvedimento che ha sostituito il reddito di cittadinanza, per evitare quanto più possibile la povertà infantile. Abbiamo introdotto e valorizzato il «criterio famiglia» in tanti provvedimenti, da quelli più piccoli a quelli strutturali come la delega fiscale.
Può bastare?
EUGENIA ROCCELLA — No. Tra l’altro ha ragione Volpi quando osserva che nel Pnrr non c’è niente in materia di natalità. E io penso di raccogliere la sua proposta chiedendo di introdurre nella prossima legge di bilancio un pacchetto di incentivi per il secondo figlio. D’altronde, lo sottolineo, noi siamo un esecutivo intenzionato a durare tutta la legislatura, quindi possiamo impostare una politica di largo respiro. Lo sforzo tuttavia non deve essere solo del governo. Occorre per esempio coinvolgere gli enti locali. Stiamo mettendo a punto una proposta per creare una rete di comuni family friendly, amichevoli verso la famiglia, promuovendo le buone pratiche già in atto. E poi occorre che si attivino le aziende, attraverso il welfare aziendale. Nelle imprese dove c’è attenzione verso i servizi per le mamme, la natalità dei dipendenti è più alta. Oltre alla certificazione di genere, già prevista dal Pnrr, intendiamo introdurre per le aziende un codice di autodisciplina, con adesione su base volontaria, mirato sui servizi e sulla continuità di carriera per le madri. Ha ragione Ferrera: tutto il welfare va ripensato.
Ma la questione è solo di natura economica? EUGENIA ROCCELLA — Credo di no. In Italia si facevano molti più figli quando il Paese era di gran lunga meno ricco, con un welfare ancora embrionale. Oggi vinella
I dati riportati da Roberto Volpi sono impietosi: l’Italia è passata da 577 nel 2008 a nel 2022. Non solo: quest’anno entrano nell’età feconda quindicenni e ne escono 476 mila cinquantenni. La questione demografica — la denatalità — ha assunto dimensioni drammatiche nel nostro Paese, tanto che su «la Lettura» è stato proposto un «reddito di figliolanza» a partire dalla seconda gravidanza. Abbiamo invitato a parlarne la ministra Roccella (FdI), il sindaco di Reggio Emilia (Pd), responsabile dell’Anci per il welfare, il politologo Maurizio Ferrera e lo stesso Volpi
viamo in un periodo di sostanziale benessere e ne facciamo pochi. Quindi le politiche di sostegno servono, ma occorre soprattutto un cambiamento culturale profondo. Oggi le donne vogliono lavorare e fare carriera, esprimere i propri talenti. Bisogna aiutarle a farlo senza rinunciare alla procreazione, mobilitando tutte le energie della società civile. In caso contrario, non credo che si riuscirà a frenare l’inverno demografico.
LUCA VECCHI — Forse mi sono espresso male, ma non sottovaluto affatto la gravità della situazione. La proposta dei 500 euro per il secondo figlio può essere utile, anche per mandare un messaggio forte sul piano culturale. Quanto a noi sindaci, ci troviamo ogni giorno a gestire una complessità urbana che richiede investimenti infrastrutturali, ma anche risposte alle emergenze che di volta in volta si presentano, dalla questione della disabilità a quella dell’assistenza agli anziani. E in questo rientra anche il tema della natalità. Nel mio comune, a Reggio Emilia, la scolarizzazione negli asili-nido è al 60 per cento e l’occupazione femminile al 70 per cento. Ma l’inverno demografico è arrivato anche qui.
Come intervenire?
LUCA VECCHI — Credo si possano ottenere risultati solo se l’azione dei comuni diventa parte integrante di una strategia nazionale. Bisogna che la ripresa della natalità diventi, per fare un paragone con le imprese spaziali, la «missione Apollo» del Paese da qui ai prossimi dieci anni, con una convergenza di risorse, di attenzione, di investimenti anche culturali, coinvolgendo i privati, in particolare le imprese. Occorre mobilitare tutte le energie anche al di là delle singole appartenenze politiche. Capisco che ci sono sensibilità diverse, ma serve una strategia che coinvolga l’intero Paese, anche per fare il salto culturale di cui parlava la ministra Roccella.
ROBERTO VOLPI — Vedo con piacere che c’è una forte convergenza dei punti di vista. È verissimo che la questione della natalità non è soltanto di natura economica, come dice la ministra, e che il Pnrr è stato un’occasione perduta. Torno però all’urgenza dell’oggi, alla necessità di una politica immediata molto incisiva, che bisogna adottare anche correndo dei rischi. È possibile che un sussidio di 500 euro mensili induca le donne a uscire dal mercato del lavoro o a non entrarvi. Ma il fatto è che abbiamo una proporzione di figli unici che è abnorme, il 48 per cento delle nascite. Bisogna cercare assolutamente di spostare sul secondo figlio una quota rilevante di coppie che si fermerebbero al primo. Ormai la sorte demografica dei Paesi si gioca su questo.
Da qui deriva l’idea dei 500 euro?
ROBERTO VOLPI — Sì, serve a creare una convenienza forte sul secondo figlio. Oggi il numero medio di figli della donna italiana è 1,18. Se nel Paese siamo complessivamente a 1,25 è perché le donne straniere residenti da noi, pur contraendo a loro volta la fecondità, sono a 1,87 e quindi ci danno un qualche respiro. Non si può sopravvivere con una natalità di questo livello, avendo una popolazione in età fertile così ristretta che diminuisce anno dopo anno. Bisogna osare, dare una forte scossa, e spero che il provvedimento annunciato dalla ministra vada in questo senso. Può funzionare il sussidio per il secondo figlio? Io non ne sono sicuro al 100 per cento, ma so che c’è un’immediatezza del problema che va aggredita con misure straordinarie.
Dinanzi alla crisi demografica non sarebbe il caso di cambiare l’approccio verso il tema dell’immigrazione, rendendolo meno restrittivo?
MAURIZIO FERRERA — Non si tratta solo di essere meno rigidi, ma di cambiare il modo in cui si gestisce l’immigrazione. L’Italia lascia molto a desiderare quanto
a organizzazione del percorso d’integrazione una volta che i migranti siano entrati nel Paese, in maniera auspicabilmente regolare. Gli ingressi dall’estero, soprattutto se si tratta di donne in età fertile, possono contribuire a frenare il tracollo demografico. Ma i migranti devono essere integrati attraverso percorsi che offrano servizi tali da aiutarli a inserirsi non soltanto nella società, ma anche nel mercato del lavoro. C’è un problema gigantesco di formazione, che altri Paesi europei organizzano già nelle terre d’origine dei migranti. Lo fa la Svezia, altrettanto la Germania. Noi abbiamo tentato solo qualche piccola sperimentazione che però non è riuscita.
Siamo molto indietro?
MAURIZIO FERRERA — Oggi in Italia prevale un’immigrazione disordinata, che spreca risorse anche sotto il profilo del capitale umano. Il governo potrebbe impegnarsi a stipulare degli accordi con i Paesi di origine, non solo perché cerchino di trattenere sul loro territorio persone che altrimenti finirebbero per consegnarsi nelle mani dei trafficanti di esseri umani, ma perché agiscano per formare sotto il profilo professionale i loro cittadini intenzionati a trasferirsi in Italia sfruttando le quote dei flussi regolari.
Poi c’è anche il fenomeno degli italiani che vanno all’estero per cercare lavoro.
MAURIZIO FERRERA — Nell’ultimo decennio abbiamo visto emigrare dal nostro Paese un milione di persone, la metà delle quali erano giovani, tra cui molte donne in età fertile, parte di quella platea che, come ricordava Volpi, si contrae molto rapidamente. Questo flusso, a meno che non si attivino politiche adeguate, è destinato a continuare. Tra l’altro i giovani che partono sono generalmente istruiti, spesso hanno la laurea. E se ne vanno perché in Italia esistono colli di bottiglia che rendono difficile l’ingresso nel mondo del lavoro con retribuzioni adeguate alle loro aspettative, più o meno in linea con quelle offerte negli altri Paesi. Se all’estero per lo stesso lavoro ti pagano molto di più, la convenienza a emigrare diventa forte. Si tratta di un brutto segnale: è vero che un po’ di emigrazione si registra ovunque, ma noi abbiamo una massa critica veramente anomala rispetto al resto dell’Ue, eccezion fatta per alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale. Quegli Stati però, soprattutto dopo la Brexit, hanno adottato programmi d’incentivi per fare tornare gli espatriati. Sono misure che stanno funzionando: avviene in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Romania. Muoversi nello stesso senso in Italia sarebbe un segnale di attenzione verso giovani che, se rimangono all’estero, avranno figli in altri Paesi, quindi non contribuiranno ad alleviare la nostra crisi demografica.
EUGENIA ROCCELLA — Sono d’accordo su questo ultimo punto. Bisogna intervenire sul mercato del lavoro e soprattutto sul welfare aziendale, perché i giovani sono sempre più attenti alla vivibilità delle loro condizioni d’impiego e non soltanto alle remunerazioni. Per molti versi è normale che i ragazzi vadano a fare esperienze all’estero. Però è importante non solo farli tornare, ma anche attrarre giovani dai Paesi più avanzati. Sicuramente su questo tema ci sarà attenzione da parte del governo.
Passiamo all’immigrazione extracomunitaria.
EUGENIA ROCCELLA — Il nostro governo si è trovato di fronte a un’immigrazione irregolare incontrollata difficilissima da gestire, con una crisi del Nord Africa che si è estesa dalla Libia alla Tunisia. Ciò nonostante, abbiamo ripristinato il canale dei flussi regolari per circa 500 mila persone. Però in questo momento le migrazioni sono soprattutto un problema di politica internazionale, di rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo. Questioni su cui la presidente del Consiglio sta facendo un lavoro enorme, cercando di condurre in porto l’iniziativa del «piano Mattei» di aiuto allo sviluppo dell’Africa settentrionale.
E la questione demografica interna?
EUGENIA ROCCELLA — Da sempre l’immigrazione è un canale che incide sulla natalità. Ci sono però due osservazioni da avanzare. La prima è che le donne che arrivano in Italia, dopo un po’, assumono gli stessi comportamenti procreativi delle nostre connazionali. Un dato che dimostra quanto conti il fattore culturale: le coppie che vengono in Italia da Paesi più poveri avevano sicuramente in patria una situazione economica peggiore e un welfare meno generoso, ma là tendevano a fare più figli mentre da noi si adeguano alla situazione locale. L’altro punto è che la natalità non è soltanto una questione di welfare da riformare, come pure è necessario, o di aree interne dell’Italia che si vanno svuotando di abitanti. Il nodo è anche la mancanza di vitalità dell’Italia. Un Paese che non fa figli è un Paese in sofferenza, perché è meno proiettato verso il futuro, meno aperto alla solidarietà fra le generazioni, meno propenso a innovare, intraprendere, adeguarsi al mondo che cambia. Quindi l’immigrazione può aiutarci, ma non è accettabile appaltare ad altri Paesi la soluzione del problema della natalità. Si tratta in primo luogo di chiedersi perché gli italiani non fanno figli e intervenire con urgenza.
LUCA VECCHI — A proposito di immigrazione, io ho visto Reggio Emilia passare in poco più di vent’anni da 130 mila a 175 mila abitanti, con 25 mila residenti riconducibili a 120 nazionalità diverse. E in vent’anni abbiamo riconosciuto la cittadinanza italiana a circa 12 mila persone. Da città di provincia siamo diventati un centro di stampo europeo, con la necessità di investire sul dialogo interculturale e interreligioso come condizione fondamentale della convivenza civile. Questo ha inciso sulla dinamica demografica, con la necessità di adeguare i servizi, e ha visto il sistema produttivo come motore dell’accrescimento della popolazione. Sei-sette anni fa la situazione si è stabilizzata e oggi siamo in una condizione analoga a quella di altre città italiane.
Come va gestito il problema?
LUCA VECCHI — Purtroppo lo affrontiamo ancora in chiave prevalentemente emergenziale, con un’assoluta priorità assegnata al tema dell’accoglienza. Gli sbarchi sulle nostre coste non sono diminuiti, anzi sono il doppio di un anno fa. E i comuni non possono andare molto oltre la prima accoglienza, mentre sarebbe necessario venire incontro alle esigenze di un sistema produttivo che richiede maggiore manodopera per sviluppare le proprie opportunità di crescita. L’Emilia oggi avrebbe bisogno di una diversa programmazione dei flussi in entrata, simile a quella messa in atto dalla Germania alcuni anni or sono. Anche l’integrazione viene facilitata se si accompagna a iniziative di formazione e di inserimento nel lavoro.
Quindi una maggiore apertura?
LUCA VECCHI — Una società multiculturale presenta indubbi problemi, ma risulta più dinamica, anche sotto il profilo demografico. Io auspico che, al di là delle appartenenze politiche, si abbia tutti un po’ più di coraggio nel puntare sull’attrattività nei riguardi degli immigrati, perché in caso contrario la curva dell’invecchiamento finirà con l’accentuarsi in modo irrimediabile. Bisogna diventare più attrattivi, senza avere paura delle dinamiche sociali che questo comporta.
ROBERTO VOLPI — Sono d’accordo. Non si deve e non si può avere paura dei flussi migratori. Vanno regolati e programmati, il che è molto difficile ma ineludibile. Come ho già detto, il grande problema strutturale dell’Italia, che la trascinerà a fondo se non interveniamo, è la diminuzione delle donne in età fertile. Anche se il tasso di natalità crescesse, non possiamo aspettare 15 anni, se ci va bene, per avere un rimpolpamento della popolazione femminile in età feconda. Quindi su questa variabile giocheranno in modo particolare i flussi migratori. Non ha senso, per esempio, contrastare l’immigrazione per motivi economici, che è proprio quella di cui abbiamo bisogno. Tra l’altro da questo punto di vista in Italia abbiamo una fortuna.
Quale?
ROBERTO VOLPI — La presenza di un’industria manifatturiera molto differenziata e diffusa, che determina una dispersione sul territorio dei migranti. Il loro maggiore punto di aggregazione rispetto alla popolazione è Prato con la sua industria tessile, non Roma o Milano. E ci sono casi come Reggio Emilia, letteralmente salvata dai migranti. Questa dispersione evita l’effetto banlieue tipico della Francia e facilita l’integrazione. Del resto abbiamo 120 mila concessioni di nazionalità all’anno, residenti italiani che diventano cittadini italiani. Vuol dire che un aggiustamento è in corso.
E il problema degli italiani che emigrano?
ROBERTO VOLPI — Vi cito un dato: negli ultimi dieci anni abbiamo perduto 140 mila laureati, nel saldo tra coloro che sono entrati in Italia e quelli che l’hanno lasciata. Si parla molto di iniziative per i giovani, ma di fronte a un esodo simile emerge l’incapacità del sistema di assorbire anche i pochi ragazzi che escono dall’università. Purtroppo si insiste su lauree che non hanno sbocco, mentre si dovrebbero orientare gli studenti verso altre scelte. Continuiamo per esempio a sfornare laureati in Giurisprudenza, quando la sola Lombardia ha più avvocati della Francia intera. Che ce ne facciamo? Insomma il problema demografico italiano ha molti aspetti da considerare. Ma insisto sul fatto che bisogna intervenire subito, prima che sia troppo tardi.