Corriere della Sera - La Lettura
Una nuova civiltà globale L’impossibile sogno cinese
Solo una potenza egemonica dominante può dare vita a un altro mondiale e, benché ci provi, Pechino non ha la possibilità di farlo: troppi problemi, non solo economici. Per costringere i rivali a seguire la sua volontà dovrebbe distruggerli materialmente.
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Da alcuni anni, fra gli specialisti di relazioni internazionali ferve la discussione intorno a un possibile «nuovo ordine mondiale» governato dalla Cina. La diplomazia e la propaganda di Pechino ne parlano a ogni piè sospinto, pur ricusando al tempo stesso ogni volontà di egemonia. Nella primavera di quest’anno, i dirigenti cinesi hanno aggiunto all’architettura di quell’ipotesi un’altra colonna, la terza di un progetto di lungo periodo presentato come un nuovo sistema di organizzazione delle relazioni internazionali alternativo a quello americano: all’iniziativa «per lo sviluppo globale» e a quella «per la sicurezza globale» è stata aggiunta l’iniziativa «per la civiltà globale». Come ogni altra potenza che si è candidata nel recente passato a rimettere ordine nel mondo, anche la Cina correda la sua proposta con una serie di valori che, «nel rispetto della diversità delle varie storie nazionali», rispondono alla «comune aspirazione alla pace, allo sviluppo, all’equità, alla giustizia, alla democrazia e alla libertà», come recita il comunicato ufficiale cinese.
Al di là della perfida ironia dell’evocazione di «comuni valori» di giustizia, democrazia e libertà da parte di un regime che controlla la magistratura, censura l’informazione e getta in prigione chi osa sollevare dubbi e critiche, non c’è granché di nuovo. Da quando si è cominciato a parlare di un «nuovo ordine mondiale», tutti i suoi banditori hanno farcito i loro appelli di idilliche visioni di un futuro in cui tutti i torti saranno raddrizzati, e la comune aspirazione alla pace sarà infine soddisfatta.
La differenza, in questo caso, è che molti, in giro per il mondo, si prestano a credere (probabilmente anche più di quanto non ci credano gli stessi i dirigenti di Pechino) che la Cina sia davvero in condizione di forgiare, o addirittura stia già forgiando, un nuovo ordine mondiale sotto la propria direzione. Nei decenni che sono seguiti alla fine della guerra fredda, l’idea stessa di «ordine mondiale» è stata talmente strattonata da una parte e dall’altra da essersi trasformata in uno slogan ideologico, di facile manipolazione, ormai indipendente dalla sua realtà storica, fatta di guerre e distruzioni. Infatti, in una società basata sulla competizione e la lotta tra interessi diversi e contrapposti come la nostra, l’unico modo per imporre l’«ordine mondiale» è che una delle parti costringa le altre con la forza a rinunciare ai propri interessi.
È possibile che nella classe dirigente di Pechino (e tra la popolazione del Paese) vi sia chi, in preda a un’ingiustificata ubriacatura di autocompiacimento, creda davvero che la Cina sia sul punto di governare il mondo. Ma è più verosimile che coloro che controllano per ora le leve del comando, più sobri, usino il miraggio di un ordine alternativo a quello (sempre meno) dominato dagli Stati Uniti per offrire motivazioni e speranze alla propria popolazione, ma anche, e soprattutto, ai dirigenti di una serie di Paesi desiderosi non tanto di rompere con gli Stati Uniti e con il resto del cosiddetto «Occidente», quanto di avere più opzioni a loro disposizione, di avere più frecce al loro arco.
La Cina, insomma, è a caccia di clienti: per vendere loro le sue merci, servirsi delle loro materie prime e farvi i propri investimenti («iniziativa per lo sviluppo»), e per creare un fronte di Paesi ormai meno compiacenti di fronte ai desiderata di Washington («iniziativa per la sicurezza»); e lo fa agitando la bandiera del multipolarismo e del rispetto dei diversi percorsi nazionali e delle diverse forme politiche («iniziativa per la civiltà»). Verosimilmente, per i dirigenti più sobri di Pechino lo scopo non è tanto di creare un nuovo ordine mondiale — cosa che, in ogni caso, è impossibile senza una guerra — quanto di poter godere della stessa libertà di movimento, in senso letterale e in senso lato, dei loro colle
ghi di Washington. In fondo, dicono, la Cina ha acquisito una sempre più robusta influenza a livello internazionale grazie a prestiti, investimenti e iniziative diplomatiche, e quindi merita ormai di avere almeno gli stessi privilegi di cui godono gli Stati Uniti.
Tutte le potenze emergenti, una volta superata una certa soglia critica della loro crescita, rivendicano il «diritto» a svolgere un ruolo nella «ridefinizione delle regole» (come si usa dire oggi) della politica internazionale; regole che erano state stabilite quando quelle potenze non erano ancora emerse e che quindi non tengono in conto le loro recenti esigenze (continuando invece a servire le esigenze delle vecchie potenze, ancorché declinanti). A fine Ottocento, furono la Germania e gli Stati Uniti a rivendicare i loro «diritti» di potenze emergenti: la prima, esplicitamente e rumorosamente; i secondi nei fatti, silenziosamente e forse anche, in parte, inconsapevolmente, grazie alla conquista di nuovi mercati e sempre più avanzate posizioni geostrategiche. Come spesso capita, i più deboli — anche tra gli emergenti o presunti tali — tentano di coprire le loro deficienze con proclami roboanti e azioni clamorose, fino a provocare, come nel caso della Germania guglielmina, danni catastrofici e irreparabili. Alla luce di questi due esempi, si potrebbe dire che la Cina si pone a mezza strada tra il modello tedesco e il modello americano. Ma le sue rivendicazioni, di per sé, non bastano a renderne credibile la candidatura a un futuro ruolo di potenza egemonica.
Nel 1986, lo storico britannico Paul Kennedy ha individuato la legge generale dell’ascesa e del declino delle grandi potenze: secondo lui, esiste una visibile (detectable) correlazione tra i mutamenti degli equilibri economici e produttivi e i mutamenti negli equilibri politici. Anche se, precisava Kennedy, quella correlazione diventa detectable solo in the long run, a lungo termine; e benché essa porti «ineluttabilmente all’ascesa di certe potenze e al declino di altre», cioè a uno scombussolamento delle gerarchie politiche internazionali, non è affatto detto che sbocchi nell’affermazione della potenza sfidante.
Il rapido sviluppo della Germania guglielmina, per esempio, ha certamente partecipato in misura non indifferente allo spostamento delle gerarchie internazionali a cavallo tra Ottocento e Novecento, ma la sua sfida all’egemonia politica britannica è catastroficamente fallita. Se ci fosse una corrispondenza istantanea e proporzionale tra peso economico e peso politico dei vari Paesi, le relazioni internazionali potrebbero essere studiate col semplice supporto di una calcolatrice. In realtà, i fattori che determinano i cambiamenti politici sono molteplici: non solo la geografia, l’economia, la demografia, la forza militare, la rete di relazioni estere — i primi che vengono in mente — ma anche la legittimità e la credibilità delle istituzioni, la legittimità e la credibilità del personale politico, e infine, ma non meno importanti, i fattori immateriali, quali il peso della storia, della tradizione, della psicologia sociale, delle ideologie, delle religioni, eccetera, e, più in generale, la coesione sociale e un clima propizio al libero dispiegamento di tutte le energie nazionali.
Come ha scritto lo studioso Robert Gilpin, lo spostamento dei pesi economici è certamente «il fattore più destabilizzante» delle relazioni tra gli Stati, ma può determinare il successo dello sfidante solo in the long run, e solo se gli altri fattori sopra sommariamente elencati entrano nell’equazione finale. Nel giugno 2022, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, disse che «gli Stati Uniti sono la principale fonte di sconvolgimento dell’attuale ordine mondiale»; Wang aveva effettivamente di che appoggiarsi su alcune prove fattuali nell’immediato, ma dimenticava di aggiungere che, negli ultimi trent’anni (in the long run), la principale fonte di sconvolgimento dell’ordine mondiale era stato proprio lo sviluppo del suo Paese. La storia però ci insegna che lo sconvolgimento del sistema esistente è condizione necessaria per poterlo sostituire con un altro ordine, ma non è una condizione sufficiente.
Gli Stati Uniti, che pure erano di gran lunga meglio attrezzati della Cina di oggi (di sicuro dal punto di vista demografico, di legittimità politica e di coesione sociale), sono diventati la prima potenza industriale del mondo negli anni Ottanta dell’Ottocento e la prima potenza economica negli anni Novanta dello stesso secolo; tuttavia sono riusciti a diventare la potenza egemonica solo alla fine della Seconda guerra mondiale, cioè mezzo secolo più tardi. Insomma, per scalzare il Regno Unito e assumere quel ruolo egemonico al suo posto, gli Stati Uniti hanno dovuto annientare i propri competitori in due guerre mondiali — senza dimenticare che, per potersi candidare come potenza sfidante, avevano dovuto combattere, e vincere, altre guerre decisive nel corso dell’Ottocento, tra cui quella del 1898 contro la Spagna è senza dubbio la più importante.
La Cina non ha nessuna possibilità di dar vita a un ordine nuovo: non solo è in difficoltà su numerosi fronti, compreso quello economico; non solo le fanno difetto alcune condizioni indispensabili (tra cui la legittimità interna e l’affidabilità internazionale); ma soprattutto non può sperare di convincere con le buone maniere i suoi competitori a rinunciare ai propri interessi e ai propri obiettivi per permetterle di affermare i suoi.
Per la Cina, quindi, l’unico modo per costringere i propri rivali ad allinearsi alla sua volontà sarebbe — come è sempre successo nel passato — distruggerli materialmente e psicologicamente attraverso un’altra guerra generale. E neppure questo basterebbe ancora perché, mentre i due conflitti planetari del Novecento hanno reso gli Stati Uniti ancora più ricchi e potenti, la Cina sarebbe invece economicamente e, quasi di sicuro, politicamente annientata da una guerra, anche se la vincesse; e la stessa cosa accadrebbe agli Stati Uniti, anche se la vincessero. Una condizione che ricorda la mutua rovina dei contendenti europei nella Prima guerra mondiale, senza che all’orizzonte si profili nessuna potenza in grado di approfittarne per imporsi. Al di là del fatto, naturalmente, che un’eventuale prossima guerra mondiale potrebbe davvero essere l’ultima, e non perché si sia finalmente trovata la formula per eliminare le cause delle guerre, ma perché non resterebbe più niente e nessuno da distruggere.
Solo una potenza egemonica dominante, con alcuni alleati in posizione subordinata, può essere in grado di dar vita a un nuovo ordine mondiale, cioè di stabilire le regole e imporne il rispetto agli altri soggetti. Nel passato, le potenze che vi sono riuscite — la Francia dopo la guerra dei Trent’anni, il Regno Unito dopo le guerre napoleoniche e gli Stati Uniti dopo le guerre mondiali — hanno tutte seguito percorsi diversi e svolto quel ruolo in modi diversi. Non esiste un canovaccio a cui i cinesi (o altri eventuali aspiranti egemoni, ammesso e non concesso che i cinesi vi aspirino coscientemente) possano ispirarsi. Ma tutte sono passate attraverso guerre calamitose dalle quali tutte avevano fondate speranze di uscire vittoriose.
Oggi, quella condizione non esiste, né per la Cina, né per nessun altro. E nemmeno, ovviamente, per gli stessi Stati Uniti, che si trovano nell’inedita e imbarazzante condizione di sabotare parte di quelle regole che essi stessi avevano imposto a tutti gli altri alla fine della Seconda guerra mondiale. Una prova in più che non sono le regole a determinare i rapporti tra le potenze, ma i rapporti tra le potenze a determinare le regole.