Corriere della Sera - La Lettura
Jhumpa Lahiri Sono a casa in biblioteche e aeroporti
Aun certo punto de L’interprete dei malanni, verso il finale, Jhumpa Lahiri fa dire a un suo personaggio: «Non sono l’unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il primo». È il nucleo di questo libro magnifico e di un’autrice che contiene l’India, gli Stati Uniti e l’Italia, dove Lahiri vive da undici anni. La incontro qui, in un ampio appartamento a Trastevere con una terrazza che sormonta i tetti romani. C’è la sua scrivania, un divano comodo, scaffali con volumi in lingua inglese e italiana (intervallati da una scia di smalti per unghie), piccoli cumuli dei libri di Primo Levi, Ovidio e dell’amatissima letteratura antica che la abita da sempre.
Jhumpa Lahiri è un cuore letterario che attraversa epoche primordiali e tempi futuri, in cui la direzione del viaggio è il ritorno alle origini e il suo disfacimento. Ritornare e disfare, dunque, ma anche partire di nuovo e conoscersi nelle ferite rimediate mentre interpretiamo il mondo. Succede quando si raccontano storie come questa, cruciali e profetiche, che scavano il lettore e hanno rivelato a Lahiri stessa il proprio grande malanno.
«È più di un grande malanno, è il malanno di una vita: da sempre mi sento scomoda nel mondo. Mi chiedo chi sono e perché sono qui, e perché dovrei essere qui e se va bene essere qui. Questo è il fulcro di un disagio esistenziale. Ed è anche spaziale: nel rapporto tra me e l’ambiente, o tra un mio personaggio e lo scenario che vive, può insediarsi la perdi dita del rifugio. Il non trovarsi, insomma, o il ritrovarsi fuori luogo: sempre in visita e mai la padrona di casa. Se vogliamo distillare la mia vita e la mia letteratura il malanno è lui».
È per questo che racconta spesso di anime alla ricerca, poi acquietate, di nuovo senza pace. Una letteratura del disorientamento.
«Sì. Racconto di personaggi che cercano un nuovo posto nel mondo. Meglio: racconto di destini che provano a trovare un nuovo posto nel mondo o che sentono la mancanza di un altro posto o che si trovano tra spazi diversi, e quindi non si trovano più».
Spazi diversi o nazionalità diverse?
«Le etichette di nazionalità non mi appartengono».
Che cosa le appartiene?
«I libri. Guardo i libri e trovo il mio orizzonte».
Lo sosteneva anche Ágota Kristóf che rifiutò sempre ogni patria che tentavano di addossarle. Disse: «L’unica tana è l’inchiostro». A proposito di questo, c’è un libro che è stato una tana più di altri, sia come lettrice che come scrittrice?
«Le Metamorfosi di Ovidio. Ma adesso che ci penso bene, ogni libro che ho amato mi ha dato una collocazione esistenziale. Al contrario di ogni luogo, almeno fino a un certo punto della mia vita, che è stato fonte di dolore. Quando ero bambina e poi ragazza non mi sono mai sentita a mio agio nemmeno a casa. Per i miei stessi genitori il focolare non era un rifugio, soprattutto per mia madre che appariva attaccatissima alle sue origini indiane e rifiutava ogni nuovo luogo americano. Eravamo alienati. Questi sono i primi ricordi».
Ed è rimasta con questa alienazione a lungo?
«Finché non ho trovato due spazi che tuttora mi fanno casa: il primo è qualsiasi biblioteca. Appena entro in una biblioteca mi radico, mi trovo, mi tranquillizzo. Sento il senso della vita. Voglio vivere lì e trovo lì il coraggio di vivere. Il secondo luogo sono gli aeroporti. Adesso sono allucinanti ma negli anni Settanta, andando verso quello di Boston, appena vedevo il tabellone con le destinazioni mi sentivo bene, perché è un posto di non-appartenenza. È un luogo di transizione, un luogo di attraversamento: mentre lo avvistavo, o ci passavo, o ci entravo, avvertivo che il mio malanno si scioglieva. Smettevo di sentirmi nel posto sbagliato o di essere la persona sbagliata. In aeroporto io sono come tutti gli altri, perché il problema di base è percepirmi profondamente sbagliata, fuori posto».
Sbagliata e fuori posto, intende straniera?
«Più verso l’idea di essere imperfetta, poco definita, non all’altezza per via della mia... c’è una parola che devo trovare».
Composizione?
«Sì, esatto, della mia composizione. Composizione che significa l’insieme della mia sostanza di nascita, quella di spostamento, quella di insediamento, quella fatta della perdita e dei ritorni».
Mi sembra il movimento che si fa nella scrittura, e soprattutto nella traduzione. È per questo che i libri di cui
si è occupata si insinuano sempre in un’estenuante ricerca linguistica?
«È esattamente quello che è avvenuto con l’Italia. Quando sono arrivata qui e ho iniziato a vivere attraverso l’italiano, a lungo è stato come essere in un aeroporto dove ero quasi me stessa. Ma poi è successo: all’improvviso mi sono sentita davvero a mio agio. Il malanno si era attenuato. Roma è casa. E non so più se è un luogo o un libro. Questo fa capire come la letteratura sia un orizzonte in cui rifugiarmi».
Ho delle perplessità sulla letteratura come rifugio. Sarà che ho sempre paura che diventi consolazione.
«Non diventa consolazione, anzi. Mantiene una forza abrasiva, scomoda, che comunque è casa, anche se “casa” per me è sempre un concetto precario. E per me lo è diventata studiando sempre, leggendo sempre. Poi di colpo mi è accaduta una cosa: ho smesso di leggere in inglese e ho cominciato a leggere in italiano ancora prima di venire qui. Ho cancellato un’origine. Da lì sono entrata nella landa italiana».
Da quali autori ha cominciato?
«Dai classici del Novecento. I racconti di Moravia, Pavese, Ginzburg. E dopo l’arrivo a Roma ho conosciuto scrittori come Domenico Starnone e Patrizia Cavalli che mi hanno dato i primi veri consigli di lettura. Li seguivo alla lettera andando in libreria, cercando titoli di Delfini, di Landolfi, di Ortese e di de Céspedes. Li ho scoperti tutti qua. Andavo a Porta Portese, nelle librerie di quartiere, scorrazzavo, capivo che una cosa mi conduceva a un’altra imbastendo un destino letterario anche italiano».
C’è un sentimento che la letteratura italiana le ha aggiunto alla sua composizione?
«Direi l’aspetto trasversale. Nel senso identitario, linguistico e culturale. Ho i libri di Primo Levi sempre qui sulla scrivania. Lui mi ha aperto un mondo. La scoperta di Primo Levi per me è stata una rivelazione perché ho iniziato anche a capire figure come quelle del Centauro — una figura magica, ibrida, anche mostruosa —, i collegamenti con il mondo antico, la Grecia. I tasselli si univano. Grazie a Levi riesco a collegare l’universo latino e greco antico che mi circondava da sempre. Poi lui ha la doppia identità di scrittore e anche di chimico, l’origine ebraica e l’identità italiana. Per me è stato importante affrontare con più lucidità la gabbia delle origini, capire come vivere questa condizione di dualismo».
E l’ha capito?
«Non credo (ride). Ora che ci penso, però, tutti gli autori della mia formazione vivono questa divisione. Di base è un esilio quasi volontario dentro sé stessi. Penso a Joyce che fa passaggi di attraversamento geografico — viene in Italia, c’è Trieste, terra di frontiera; oppure a Svevo; tutti questi incroci sorprendenti e superfertili. Penso a Kafka, Beckett, Nabokov, scoperti quando avevo diciannove anni. Penso a Woolf, che reinventa la lingua inglese. Sono autori che in qualche modo hanno cambiato o luogo o mentalità, sguardo. Hanno mutato ottica per ritrovarsi. Beckett viene in Francia, poi scrive in un’altra lingua, poi racconta il suo passato irlandese. Questo è molto interessante per me. Sono tutti autori di confine, di purgatorio: quel purgatorio rimane una mia casa. Sono le mie origini a non interessarmi più, ecco la verità. Non mi interessano e non saprei dove cercarle».
«Non mi interessa più l’idea di dover rappresentare la realtà in quanto autrice americana di origine indiana con il compito di raccontare un certo mondo per allargare la nostra visione culturale».
Le etichette.
«Ancora una volta. Vince l’idea di reinventarsi, di cercare un altro approdo, di mettere sempre distanze da un punto che per protocollo ci dovrebbe appartenere. L’idea di essere quell’autore importante che gira il mondo grazie a un riconoscimento avuto, che ha un’autorità di un certo genere, non mi interessa alla fine».
Sta lottando contro il suo Pulitzer?
«Forse. È un’etichetta che mi insegue sempre. Uno stato, un dato di fatto. Ma è un’etichetta che appartiene strettamente a L’interprete dei malanni, il libro che se l’è portato a casa. Io non sono quel libro e basta».
Anche questo è lasciare un confine.
«Il Pulitzer ti trascina in un luogo preciso. La gente ti vede e pensa: “Ah, allora questo premio significa quella cosa e siccome lei lo ha vinto vuol dire che...” ma non è vero. Quel premio è stato il giudizio di tre persone che hanno letto il mio libro e lo hanno scelto in quel momento, in quella conversazione lì, facendoci un ragionamento. È un riconoscimento che temevo di non meritare. Ecco perché ho avuto uno strano rapporto con questo premio: ho cercato di allontanarmi proprio per sfuggire all’importanza che per me aveva avuto allora».
E cosa è importante, adesso?
«Andare avanti, con la mia missione personale di scrivere meglio, leggere meglio, raggiungere un po’ meglio quello che sto cercando. Non posso dirle un traguardo preciso, oltre a questo, perché non lo so. So che nella mia testa ho un’idea della letteratura e ha una direzione verso Primo Levi, verso Ovidio, verso gli altri esempi importanti che mi hanno fatto strada e mi hanno fatto casa. Sia quando traduco, sia nella lettura. Ovviamente quando scrivo. E sto parlando della lingua italiana».
Cambia composizione quando scrive in italiano?
«Assolutamente. Me ne accorgo subito perché in italiano sono molto più a mio agio, più comoda, senza più quel malanno acuto. L’italiano è una cura».
E l’inglese?
«È parte del malanno».
Quindi dall’Italia non se ne andrà? «Mai. Roma non la lascio. Fisicamente ogni tanto devo andare via, ma dentro c’è un innesto permanente. Anche dal punto di vista di trasmissione letteraria».
Ai suoi figli ha imposto questa trasmissione letteraria?
«Non voglio essere la madre-scrittrice ingombrante. Osservo, guardo. Mio figlio studia lettere antiche che è stata anche la mia passione che credevo sopita. E invece tutto è tornato negli ultimi anni perché ho accettato il compito di ritradurre le Metamorfosi di Ovidio. Poi per fortuna mio figlio aveva già preso una sua direzione perché è un attore. Ma c’è una certa soddisfazione quando so che ha presente la potenza di Omero o Virgilio. Mia figlia invece sta scoprendo il suo mondo. Quest’anno ha letto Joyce, Beckett, autori così importanti per me che possiamo avere un ulteriore scambio».
Né educazione americana, né educazione italiana.
«Non posso paragonare le letterature o forse sono talmente intrecciate in me che non le distinguo. Tanta letteratura italiana arriva attraverso una lettura della letteratura anglosassone. Se vogliamo leggere Primo Levi o Pavese dobbiamo leggere bene Melville, perché Levi e Pavese
amavano Moby-Dick. C’è uno scambio sempre molto produttivo fra lingue, continenti, tradizioni, che è molto eccitante. E poi l’Italia letteraria, nel Novecento e spero anche oggi, ha più curiosità verso l’altro, verso le altre lingue, verso l’esterno. Mentre negli Stati Uniti il circuito è più chiuso, e questo mi dà fastidio. Se leggi in un’altra lingua vieni percepito quasi come una mancanza, oppure un tradimento. Un mio malanno da bambina era di conoscere un’altra lingua. Io mi vergognavo. Volevo cancellarla».
Quale lingua voleva cancellare?
«Dipendeva dai momenti. A scuola per esempio nessuno aveva mai sentito nominare l’India, il bengalese. Quindi volevo cancellare quella parte. Quanto è futile. Sarei rimasta comunque io, con il mio nome, con il mio aspetto fisico, con i miei genitori. È impossibile cancellare ciò che si è. In un mondo ideale avrei cancellato quella parte completamente, come tutti i bambini che vogliono l’identità comune, essere identici».
Una forma di democrazia interiore. «O di fascismo, forse». Poi però sono state proprio le tante lingue a salvarla».
«La bellezza di avere più di una lingua è che tu riesci ad attraversare un confine importante. Io penso che alla fine il confine linguistico sia quello più netto. Perché se tu non parli una lingua è impossibile entrare in quella realtà che la accoglie».
Roland Barthes sospettava che l’amore scaturisse dalla lingua. L’amore per gli altri, addirittura l’amore per sé stessi. Lingua come permeabilità sentimentale.
«Io sono un essere strapermeabile. E questa permeabilità mi rende disponibile per fare un’operazione come questa con l’italiano, per diventare una scrittrice in un’altra lingua imparata in età avanzata. Chissà se è proprio la disposizione alle lingue a permettermi di amare. Stare sospesi, e spostarsi, e tornare divisi e sospesi, non è forse amare?».
Questa sospensione è anche una delle ossature de «L’interprete dei malanni». Non c’è personaggio che sfugga a un purgatorio.
«Anche il libro nacque in un purgatorio. Era un tentativo primissimo per imparare a scrivere un racconto. Volevo imbastirne uno, volevo capirne il meccanismo, come si facesse a costruire un testo con una struttura, un equilibrio, un senso. E quindi iniziai a scrivere i primissimi testi ambientati a Calcutta, con personaggi dalle esperienze lontanissime dalla mia, ma con i quali sentivo comunque un legame molto forte. Erano anime ai margini della società che via via si sono avvicinate al mio universo, arrivando negli Stati Uniti».
Così nacque Jhumpa Lahiri, scrittrice.
«Ero talmente a disagio all’idea di esprimermi con le parole, di osare scrivere, di pretendere l’importanza della mia voce, della mia prospettiva, dei miei pensieri. Ero molto più abituata ad osservare».
Osservare o sfuggire?
«In effetti, se ci penso bene, questo libro è scaturito dal voler capire ciò che non afferravo. I miei genitori, soprattutto. Mi amavano molto, mi proteggevano, ma io ero già divisa e ricordo di essermi sentita straniera anche con loro. È un dolore importante che provo a elaborare qui e in tutti i miei libri. Fa parte del mio malanno, e della sua cura».
Marco Missiroli ha incontrato la scrittrice nella sua abitazione romana («Non andrò mai via da qui») per l’uscita de «L’interprete dei malanni» nella collana «Americana» del «Corriere». «L’India? Gli Usa? Non m’interessano. Gli autori della mia formazione vivono un esilio in sé stessi... Joyce, Kafka, Beckett, Nabokov, Woolf...: tutti di confine, di purgatorio»