Corriere della Sera - La Lettura
Il matematico dà la parola al vuoto
Tradotta per la prima volta integralmente nella nostra lingua una raccolta del francese Jacques Roubaud, autore di versi e di prosa, ma anche scienziato. L’elaborazione della perdita della moglie è affrontata con lucidità e spietatezza
Nato nel 1932 a Caluire-et-Cuire, nella regione del Rhône, ma residente a Parigi da quando era ragazzo, Jacques Roubaud è uno dei decani della poesia francese contemporanea. Oltre che poeta è anche narratore, ma soprattutto è un matematico, il che può forse dire qualcosa dell’attitudine a computare e combinare che sostiene la sua scrittura poetica. Non è un caso che già nel 1966 avesse aderito all’OuLiPo, l’officina di letteratura potenziale (Ouvroir de Littérature Potentielle) fondata solo qualche anno prima da Raymond Queneau e François Le Lionnais in nome di un’inedita interazione tra la letteratura stessa e la matematica (tra le sue fila era presente anche il nostro Italo Calvino).
Roubaud in Italia è ancora poco conosciuto, tanto più come poeta, e di conseguenza giunge opportuna la traduzione integrale di un suo libro di poesia, forse il migliore ma sicuramente il più speciale — anche se il più terribilmente speciale — tra i suoi: Qualche cosa nero, tradotto da Domenico Brancale e Tommaso Santi per FinisTerrae (l’edizione originale è del 1986). Nel modo più semplice e diretto si dovrebbe definire una raccolta a tema univocamente orientata all’elaborazione di un lutto: la perdita della moglie, la fotografa Alix Cleo Roubaud, il cui nome e la cui immagine — tra cancellazione e memoria, tra verità e menzogna della scrittura — costituiscono il primo motivo d’interrogazione del poeta e dunque la vera posta in gioco di queste poesie: «Irsuta la frammentazione dei tuoi nomi,/ Li dicevo sempre insieme, si scontravano l’uno con l’altro: Alix Cleo» (non si possono definire propriamente versi quelli di Roubaud, ma semmai versetti in prosa di lunghezza molto variabile, da poche parole a qualche riga, rispondenti di volta in volta a una campata del respiro o, forse meglio, all’elaborazione di un pensiero, a una definizione concettuale).
A tutta prima si direbbe che l’attrito non potrebbe essere più forte. Un poeta di vocazione tecnico-scientifica e costruttiva, con una forte componente sperimentale e artificiosa, ma anche ludica, viene posto spaventosamente alla prova dei fatti, ovvero al cospetto di qualcosa d’irrefutabile e insieme d’irragionevole, di non circoscrivibile, qualcosa che probabilmente non si può davvero comprendere, misurare, riportare a un senso. La perdita della persona amata, appunto; ovvero la sua «morte», detto con la parola più dura, che W.H. Auden consigliava non a caso di non ammettere in poesia, e che qui invece torna di continuo, proprio per ribadirne la natura oltraggiosa e irredimibile, tanto più per via estetica. «Avendola vista, avendo riconosciuto la morte, che non solo sembrava essere così, ma che era sicuramente così, ma che non aveva nessun senso dubitarne»: le poesie di Qualche cosa nero più o meno direttamente si sgranano tutte dall’immagine della moglie priva di vita che «si presenta per la millesima volta», «con la stessa violenza», e dalla constatazione che subito ne è derivata. «Nessun gioco di parole poteva allontanare quella certezza», comprende infatti subito il poeta.
L’attraversamento del lutto riguarda così fin dall’inizio la consistenza o l’inconsistenza dei ricordi, la realtà o l’irrealtà delle immagini, e insieme la capacità, e la legittimità anche, della parola poetica. Parlando direttamente con la propria amata, come accade in molte di queste poesie, scrive ad esempio Roubaud: «Mi ostino a circoscrivere nulla-te con esattezza, questo impossibile bipolo, a percorrere intorno a esso, queste frasi nuove che chiamo poesie./ Con tutta l’insoddisfazione formale di cui sono capace verso la poesia». Ed è proprio qui che si dà quel singolare rovesciamento in cui si trova il carattere più peculiare del libro. L’«insoddisfazione» dell’autore non riguarda infatti, come accade di regola, l’inadempienza della parola poetica nei confronti della realtà, la sua capacità di onorare adeguatamente la presenza e la sacertà della vita. Al contrario, qui è l’inesistenza o l’insussistenza dell’essere (l’amata che con il corpo, la sua voce, i suoi gesti, a tutti gli effetti non c’è più) a porre in uno stato di colpevolezza le parole della poesia, che tendono a conferire realtà a qualcosa che realtà più non ha. Il tormento del poeta non è di non riuscire a dare una forma adeguata alla vita, allora, bensì, all’opposto, di dare comunque forma e presenza al nulla, il nulla-tu, appunto.
Roubaud si muove così tra continui paradossi, e riesce a farlo, va detto, con piena consapevolezza e con molto rigore, vale a dire senza uscire mai dal gioco delle contraddizioni. Questa poesia dà contro alla memoria, alla poetica dei ricordi, all’idea della poesia che evoca ed eterna la vita, ma può farlo — il paradosso è proprio questo — soltanto a partire dalla sua stessa natura, che è inequivocabilmente affermativa. Per questo Qualche cosa nero risulta così spietato e insieme così struggente, come se i fotogrammi e le immagini della vita che è stata fossero tanto più vivide se viste sul loro rovescio, o detto altrimenti in negativo.