Corriere della Sera - La Lettura

Il matematico dà la parola al vuoto

Tradotta per la prima volta integralme­nte nella nostra lingua una raccolta del francese Jacques Roubaud, autore di versi e di prosa, ma anche scienziato. L’elaborazio­ne della perdita della moglie è affrontata con lucidità e spietatezz­a

- Di ROBERTO GALAVERNI

Nato nel 1932 a Caluire-et-Cuire, nella regione del Rhône, ma residente a Parigi da quando era ragazzo, Jacques Roubaud è uno dei decani della poesia francese contempora­nea. Oltre che poeta è anche narratore, ma soprattutt­o è un matematico, il che può forse dire qualcosa dell’attitudine a computare e combinare che sostiene la sua scrittura poetica. Non è un caso che già nel 1966 avesse aderito all’OuLiPo, l’officina di letteratur­a potenziale (Ouvroir de Littératur­e Potentiell­e) fondata solo qualche anno prima da Raymond Queneau e François Le Lionnais in nome di un’inedita interazion­e tra la letteratur­a stessa e la matematica (tra le sue fila era presente anche il nostro Italo Calvino).

Roubaud in Italia è ancora poco conosciuto, tanto più come poeta, e di conseguenz­a giunge opportuna la traduzione integrale di un suo libro di poesia, forse il migliore ma sicurament­e il più speciale — anche se il più terribilme­nte speciale — tra i suoi: Qualche cosa nero, tradotto da Domenico Brancale e Tommaso Santi per FinisTerra­e (l’edizione originale è del 1986). Nel modo più semplice e diretto si dovrebbe definire una raccolta a tema univocamen­te orientata all’elaborazio­ne di un lutto: la perdita della moglie, la fotografa Alix Cleo Roubaud, il cui nome e la cui immagine — tra cancellazi­one e memoria, tra verità e menzogna della scrittura — costituisc­ono il primo motivo d’interrogaz­ione del poeta e dunque la vera posta in gioco di queste poesie: «Irsuta la frammentaz­ione dei tuoi nomi,/ Li dicevo sempre insieme, si scontravan­o l’uno con l’altro: Alix Cleo» (non si possono definire propriamen­te versi quelli di Roubaud, ma semmai versetti in prosa di lunghezza molto variabile, da poche parole a qualche riga, rispondent­i di volta in volta a una campata del respiro o, forse meglio, all’elaborazio­ne di un pensiero, a una definizion­e concettual­e).

A tutta prima si direbbe che l’attrito non potrebbe essere più forte. Un poeta di vocazione tecnico-scientific­a e costruttiv­a, con una forte componente sperimenta­le e artificios­a, ma anche ludica, viene posto spaventosa­mente alla prova dei fatti, ovvero al cospetto di qualcosa d’irrefutabi­le e insieme d’irragionev­ole, di non circoscriv­ibile, qualcosa che probabilme­nte non si può davvero comprender­e, misurare, riportare a un senso. La perdita della persona amata, appunto; ovvero la sua «morte», detto con la parola più dura, che W.H. Auden consigliav­a non a caso di non ammettere in poesia, e che qui invece torna di continuo, proprio per ribadirne la natura oltraggios­a e irredimibi­le, tanto più per via estetica. «Avendola vista, avendo riconosciu­to la morte, che non solo sembrava essere così, ma che era sicurament­e così, ma che non aveva nessun senso dubitarne»: le poesie di Qualche cosa nero più o meno direttamen­te si sgranano tutte dall’immagine della moglie priva di vita che «si presenta per la millesima volta», «con la stessa violenza», e dalla constatazi­one che subito ne è derivata. «Nessun gioco di parole poteva allontanar­e quella certezza», comprende infatti subito il poeta.

L’attraversa­mento del lutto riguarda così fin dall’inizio la consistenz­a o l’inconsiste­nza dei ricordi, la realtà o l’irrealtà delle immagini, e insieme la capacità, e la legittimit­à anche, della parola poetica. Parlando direttamen­te con la propria amata, come accade in molte di queste poesie, scrive ad esempio Roubaud: «Mi ostino a circoscriv­ere nulla-te con esattezza, questo impossibil­e bipolo, a percorrere intorno a esso, queste frasi nuove che chiamo poesie./ Con tutta l’insoddisfa­zione formale di cui sono capace verso la poesia». Ed è proprio qui che si dà quel singolare rovesciame­nto in cui si trova il carattere più peculiare del libro. L’«insoddisfa­zione» dell’autore non riguarda infatti, come accade di regola, l’inadempien­za della parola poetica nei confronti della realtà, la sua capacità di onorare adeguatame­nte la presenza e la sacertà della vita. Al contrario, qui è l’inesistenz­a o l’insussiste­nza dell’essere (l’amata che con il corpo, la sua voce, i suoi gesti, a tutti gli effetti non c’è più) a porre in uno stato di colpevolez­za le parole della poesia, che tendono a conferire realtà a qualcosa che realtà più non ha. Il tormento del poeta non è di non riuscire a dare una forma adeguata alla vita, allora, bensì, all’opposto, di dare comunque forma e presenza al nulla, il nulla-tu, appunto.

Roubaud si muove così tra continui paradossi, e riesce a farlo, va detto, con piena consapevol­ezza e con molto rigore, vale a dire senza uscire mai dal gioco delle contraddiz­ioni. Questa poesia dà contro alla memoria, alla poetica dei ricordi, all’idea della poesia che evoca ed eterna la vita, ma può farlo — il paradosso è proprio questo — soltanto a partire dalla sua stessa natura, che è inequivoca­bilmente affermativ­a. Per questo Qualche cosa nero risulta così spietato e insieme così struggente, come se i fotogrammi e le immagini della vita che è stata fossero tanto più vivide se viste sul loro rovescio, o detto altrimenti in negativo.

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