Corriere della Sera - La Lettura
Ci sono giornate peggiori del buio della notte artica
La groenlandese Niviaq Korneliussen affronta in modo originale una piaga sociale della sua isola
Più lugubre del corvo nero che, nella prima pagina, appare appollaiato sulla croce di un cimitero, è il folle sole estivo che in Groenlandia risplende a mezzanotte. Più tetra della lunga notte che, d’inverno, così a nord, anche nelle ore diurne priva gli occhi di luce, la pelle e le ossa di vitamina D e il sistema nervoso dell’ormone del buon umore, è una vallata tappezzata di variopinti fiori di plastica. La valle dei fiori si apre con il suo appellativo suggestivo — lo stesso che intitola il romanzo — per accogliere lapidi che, a quelle latitudini, non si potranno decorare con margherite e crisantemi e neanche recano il nome dei defunti sepolti. La ragazza che, malgrado le tombe, l’anonimo scenario di abbandono, gli orrendi fiori finti per giunta di colori sgargianti, «furenti», innaturali, si ostina a vagheggiarla non ha un nome neppure da viva. Niviaq Korneliussen, autrice che, trentenne, ha inventato la sua storia tre anni fa e ci ha vinto il prestigioso premio del Consiglio nordico, mai prima d’ora assegnato in Groenlandia, non le concede un’identità così precisa. Di lei sappiamo che è lesbica, quasi ventenne. Che è grossa, ha la pelle scura, gli zigomi alti e gli occhi a mandorla. Che soffre il complesso dei suoi tratti somatici all’università danese dove, con grande fatica e scarsi risultati, studia antropologia. Che parla sì la lingua danese — la stessa in cui è scritto il libro, ben tradotto in italiano da Francesca Turri — ma non capisce battute o allusioni, prende alla lettera i modi di dire con effetti di grottesca comicità, risponde alle provocazioni dei compagni di studio con rabbia, senza humour, con espressioni di rozza, aggressiva brutalità. Che il suo disagio, il suo sentirsi estranea, diversa, ha radici nascoste e segrete, le quali non si allacciano, parrebbe, né alla sua omosessualità né alla remota terra di ghiaccio da cui proviene. Che la sua libido è pari per intensità e potenza irrefrenabile solo alla sua pulsione di morte. Che, sfrenata com’è, non potrà che correre, acceleratore a tavoletta, incontro alla sua sorte. E il down che scandisce serrato il ritmo dei capitoli non fa che accrescere tachicardia e senso di inesorabilità.
Congegnando una narrazione scandalosa, fastidiosa, mortificante, quanto oscuramente erotica e conturbante, Korneliussen mette sul tappeto il tema vergognoso del suicidio diffuso in proporzioni da primato mondiale tra i giovani groenlandesi (non a caso se ne parla anche in Borgen, serie tv danese di successo, prodotta da Netflix, 20102022). L’autrice ha assunto toni da denuncia contro un sistema incapace di gestire la gravità del problema solo nel discorso ufficiale tenuto in occasione della premiazione che la incoronava tra i grandi della letteratura scandinava e riportato in appendice del volume Iperborea. Con la sua prosa, invece, entra e ci porta dentro la testa di una ragazza dal destino analogo a quello di troppi altri eppure aliena perfino a sé stessa. Rompendo tutti gli stereotipi sull’inquietudine del buio e la bellezza del sole anche di notte, l’autrice ci butta sulla pagina l’inaccettabile stranezza della sua protagonista pronta a sfuggire alla spietatezza della luce sfrecciando a capofitto verso un abisso coperto di fiori.
D’altra parte, già gli esordi di questa enfant terrible et prodige dalla fisionomia inuit avvennero all’insegna della provocazione. Dopo oltre un secolo di — scarna — letteratura dedicata alla natura e alla caccia, Korneliussen debuttò nel 2014 con un romanzo, Homo Sapienne che vedeva 5 personaggi queer a confronto con una cultura ancestrale. Da allora suscitò un’inversione di tendenza, allorché gli antichi coloni danesi, che per decenni esercitarono sull’isola una forte egemonia culturale, iniziarono a importare letture di grande sensibilità moderna dalla Groenlandia.