Corriere della Sera - La Lettura
Anche i bostoniani ammazzano al sabato
Procede la ripubblicazione, per La nave di Teseo, di Giorgio Scerbanenco, maestro indiscusso del giallo. Tocca ora a due titoli degli anni Quaranta con protagonista Arthur Jelling, ambientati negli Stati Uniti per sfuggire alla censura fascista
Prefazione di Cecilia Scerbanenco LA NAVE DI TESEO Pagine 212, 17
L’autore Giorgio Scerbanenco (19111969), nato a Kiev, nell’allora Russia zarista da padre ucraino e madre italiana, cresce a Roma ma adolescente si stabilisce a Milano. Negli anni Trenta diventa collaboratore alla Rizzoli e in seguito caporedattore dei periodici Mondadori, per tornare in Rizzoli nel dopoguerra come direttore dei periodici femminili. Collabora con i maggiori quotidiani e riviste, tra cui il «Corriere della Sera», «La Gazzetta del popolo», «il Resto del Carlino» e «Novella». Autore prolifico, ha sperimentato tutti i generi della narrativa ed è riconosciuto come uno dei maestri del giallo italiano, consacrato dal successo dei romanzi con protagonista Duca Lamberti, medico radiato per avere praticato l’eutanasia su un paziente terminale (Venere privata, Traditori di tutti,I ragazzi del massacro,I milanesi ammazzano al sabato) e dall’assegnazione del Grand Prix de littérature policière nel 1968. Tutta l’opera di Scerbanenco, già uscita da diversi editori, è in corso di ripubblicazione per La nave di Teseo: Lo scandalo dell’osservatorio astronomico ha in appendice Parola d’onore, trama per un romanzo mai scritto
Per anni sono stati cinque. Raggruppati anche in un solo volume: Cinque casi per l’investigatore Jelling. Soprattutto lo sono stati in vita di Giorgio Scerbanenco: Sei giorni di preavviso; Nessuno è colpevole; La bambola cieca; L’antro dei filosofi; Il cane che parla, pubblicati tra giugno 1940 e settembre 1942. Protagonista Arthur Jelling; ambientazione: Boston (anche se poi per le sue investigazioni si muove spesso fuori sede).
Cinque romanzi gialli che non potevano non fare i conti con quelle «veline per la stampa» del Minculpop fascista che parlavano di un’Italia sana; di qui l’ambientazione non italiana, sia pur con sguardi sull’ambiente sociale e culturale circostante ricalcato su quello nostro (e con risvolti insieme realistici e caricaturali nel Cane che parla).
Si tratta di romanzi riscoperti negli anni Settanta, morto Scerbanenco e nel pieno successo determinato dalle sue differenti scelte narrative, approdate al noir della Milano nera, con al vertice Duca Lamberti. Che, peraltro, con l’antesignano Jelling condivide una realtà da «fuori ruolo»: lui condannato per eutanasia e radiato dall’ordine dei medici; così come Jelling, per dirla con quanto spiega alla signorina scrittrice Fiorella Garrett, di lui «ingenuamente innamorata»: «Le raccontò come avesse dovuto troncare gli studi di medicina per mettersi a lavorare, e come avesse trovato un posto all’Archivio della Centrale di Polizia. Qui, incidentalmente, aveva risolto qualche oscuro caso poliziesco, come quello dell’attore Vaton, o l’altro della Clinica Linden (in Sei giorni di preavviso e La bambola cieca ), e ora, portato dai suoi stessi involontari successi, doveva continuare a fare l’investigatore, benché, e questo gli venne proprio dall’anima, preferisse molto dedicarsi alle buone letture, ai problemi di scacchi e ad altre cose che, possibilmente, con la Polizia e i delitti che non si sa mai chi li abbia commessi, non avessero nulla a che fare». Motivo per il quale «non amava essere chiamato poliziotto» e «neppure investigatore. Al massimo avrebbe accettato il titolo di collaboratore della giustizia»; tanto da spingere il suo superiore a chiedergli: «Cosa fate, il poliziotto o il salvatore di anime?», così richiamando quel suo rispetto per l’uomo anche se criminale, un po’ alla Maigret, ma fondato su una forte istanza etica.
In mezzo, a determinare nuove scelte, la crisi vissuta tra il 1943-1944, da lui depositata tra autobiografia e narrativa nel sofferto Non rimanere soli del 1945. Una data che di fatto seppellisce Jelling, se è vero che d’un sesto titolo, La valle dei banditi — una piccola e tenace setta che ha scelto di vivere da secoli in attesa della fine del mondo (1799; 1899; e ora il 1999), in un’oasi nel mezzo dello Stoner, «la foresta di pietra», «un orribile deserto» attraversando il quale «Jelling ebbe l’impressione di essere su un altro pianeta» —, scomparso evidentemente dall’interesse di Scerbanenco, s’erano perse le tracce, sino al ritrovamento da parte della figlia Cecilia (La nave di Teseo, 2020). Quella Nave di Teseo che oggi conclude la serie di Jelling con due titoli: Il cane che parla, ultimo della serie canonica dei Cinque casi; e Lo scandalo dell’osservatorio astronomico, anche questo, come La valle dei banditi, steso probabilmente nel 1943, consegnato a Mondadori, sotterrato dalla tragedia dell’8 settembre, quindi recuperato sempre da Cecilia Scerbanenco nel 2011 per Sellerio.
Sono tre romanzi, questi ultimi, che portano un poco in sé il segno dei bui anni di stesura. Romanzi claustrofobici: detto della Valle dei banditi, ecco in Il cane che parla. Due differenti delitti covati nella redazione culturale d’un giornale, uno dei quali messo a punto nella casa isolata del Direttore e realizzato con singolare capovolgimento del classico delitto da stanza chiusa, perché il delitto è consumato dall’esterno di un treno, a danno d’un poeta affacciatosi al finestrino in seguito al brusco arresto provocato dall’attivazione dell’allarme in modo che s’arrestasse in un preciso punto in mezzo alla campagna (e trovare chi sia stato a compiere il gesto sarà già una pista da seguire); mentre in Lo scandalo dell’osservatorio astronomico è proprio in questo ristretto ambiente che si muovono i personaggi, e lo «scandalo», prima ancora di un supposto quanto palese tentato omicidio, ha a che fare con la scoperta d’un nuovo asteroide frutto però d’un voluto errore di calcolo. Luoghi, dunque, che dicono anche della ristrettezza del numero dei protagonisti: rispettivamente sei letterati, un criminale e i cani (questi pure in La valle dei banditi); cinque scienziati e il portinaio. Ambienti che interessano «moltissimo» Jelling: non tanto per «il caso in sé stesso», ma perché, nel secondo, «in un certo senso, il tentato reato lo interessava forse più del compiuto». «Lo colpiva il fatto che in un mondo così lontano dalle brutalità, tutto proteso in studi astratti e teoretici, fosse avvenuto un crimine del genere. Le stelle, gli asteroidi, gli equatoriali, ed ecco che una donna è quasi strangolata da un pazzo...».
Un Jelling «molto alto e molto magro» che entra in quegli ambienti solo perché comandato dal superiore in quanto «erano due anni che non lasciava la città», mentre «a lui piaceva lavorare tranquillo in ufficio, tornare poi a casa, insegnare un po’ di latino a suo figlio. Certi incarichi spinosi proprio non gli andavano». Anche perché, «abolito il suo compito di archivista, e sbrigati «in pochi giorni» i casi «di un certo interesse» affidatigli, «gli rimaneva quindi molto tempo libero che egli passava nel suo comodo ma povero ufficio, fantasticando ora su un articolo, ora su un problema di scacchi, ora su qualche altro argomento che lo interessasse particolarmente».
Solo che nel frattempo, come nel caso dell’osservatorio, Jelling è stato «promosso definitivamente al grado di investigatore». Un controsenso, parrebbe, vedendolo spesso arrossire e stare in soggezione, impacciato e «timido» (è l’aggettivo che lo connota più spesso); anche se quella timidezza «giuocava a volte degli strani scherzi. Era una timidezza che confinava con l’intelligenza diabolica, ma diabolica è inesatto; piuttosto inquieta, perché mai nulla l’appagava completamente». Che è poi quanto meglio si addice agli «strani procedimenti» di «questo spilungone di Boston» che studia gli incartamenti «con gli stessi sistemi e la stessa applicazione con la quale studiava i problemi di scacchi», appuntandosi con una stilografica quanto sente su foglietti nei quali va disegnando anche «le sue solite rose»; e che, diffidando «del meccanismo associativo», ha «per principio di non aver mai fretta», «di lasciar andare le cose per il loro corso. Di non forzare mai la mano agli eventi. In fondo è sempre il tempo che risolve i problemi più spinosi, non noi...», al punto che «quando gli facevano molti elogi sulle sue qualità di investigatore, sentiva in fondo di non meritarli tutti».
E poi: «“È questione di pensare”, diceva sempre a sé stesso».