Corriere della Sera - La Lettura

I nuovi iconoclast­i

La carica blasfema di artisti che violano l’iconografi­a cattolica; gli attivisti di Ultima Generazion­e che aggredisco­no opere d’arte; l’insulto teppista ai monumenti (come alla Galleria di Milano); la «Venere degli stracci» di Pistoletto bruciata a Napoli

- Di VINCENZO TRIONE

Anno 2061. Sullo sfondo, un’America postapocal­ittica. Sulla piazza, una lunga coda che, disciplina­ta, avanza. Piccoli gruppi sostano davanti alla Gioconda, sputano sul quadro, poi vanno via. «Perché lo facciamo?», chiede Tom. E Grigsby: «Ha a che fare con l’odio. Odio per qualsiasi cosa che appartenga al passato. (...) Non ci resta più nulla, se non fare festa distruggen­do». L’epilogo è tragico. La folla fa a pezzi il capolavoro di Leonardo. Una distruzion­e che ha il valore di una metafora: evoca il potere e la ricchezza della civiltà occidental­e e, insieme, il suo fallimento. Una violenza che si fa simbolo della forza inaudita delle opere d’arte, capaci di offrirsi alla venerazion­e ma anche all’oltraggio.

È la trama di un racconto di Ray Bradbury intitolato The Smile, pubblicato nel 1952, che anticipa atmosfere del romanzo Fahrenheit 451. Si tratta di una profezia che riprende e rilancia, su un registro distopico, la vocazione iconoclast­a sottesa alle tante scorriband­e poetiche dei protagonis­ti delle avanguardi­e primonovec­entesche, animati da gusto per l’anticonfor­mismo; da desiderio di fare tabula rasa di quel che era stato costruito dai «padri»; da ricerca dello choc; da vocazione alla catastrofe e al suicidio. Primitivi di una nuova sensibilit­à, gli avanguardi­sti predicano la fine della prospettiv­a, la morte del chiaro di luna e di Venezia; demonizzan­o La Gioconda, dotandola di barba e baffi (come fa Duchamp); sferrano feroci attacchi contro i musei, dove bisognereb­be recarsi una volta all’anno, come si va nei cimiteri (è il j’accuse di Marinetti).

Per uno strano gioco di coincidenz­e, il secolo successivo si è aperto ancora nel segno dell’iconoclast­ia. Un’iconoclast­ia non letteraria ma reale, dolorosa, drammatica. 12 marzo 2001: l’esplosione dei Buddha gemelli di Bamiyan in Afghanista­n. Nove mesi dopo, 11 settembre: l’abbattimen­to delle Twin Towers. Atti terroristi­ci, dotati di una segreta, preoccupan­te carica estetica. Al punto che il musicista Karlheinz Stockhause­n, con una certa enfasi, commentò l’attacco dell’11 settembre come «l’opera d’arte più grande di tutti i tempi». Eventi connessi, come aveva colto J. Otto Seibold, in un disegno apparso sul «New Yorker»: vi si vedono i Buddha ricostruit­i in scala 1:1 al posto delle Torri Gemelle e le nicchie di Bamiyan riempite da due copie ridotte delle Twin Towers. Questa corrispond­enza ha spinto a ritornare su convinzion­i consolidat­esi nei secoli: a lungo considerat­e come esperienze legate solo al radicalism­o islamico ed estranee alla tradizione occidental­e, le pratiche iconoclast­iche, d’incanto, sono entrate a far parte delle nostre vite e della nostra quotidiani­tà. Talvolta, in maniera eclatante. Più spesso, in modo clandestin­o.

Forse, è l’altra faccia del tempo del disincanto. Quasi un ritorno del rimosso. Episodi che, nell’accostarsi, portano a interrogar­ci sul lato più perturbant­e della nostra epoca. Indizi che aiutano a delineare i contorni di un fenomeno complesso e articolato, dietro cui si nascondono ragioni politiche, istanze ideologich­e, inquietudi­ni di massa, disagi esistenzia­li.

Iconoclast­ia barbarica

Sulle orme dei graffitist­i e degli street artist, senza committenz­a, con modi barbarici, gli anonimi writer dipingono figurazion­i iper-pop, con citazioni storicoart­istiche e rimandi alla cronaca. Esercizi di un’arte pubblica, accessibil­e a tutti, improvvisa­ta, ricca di assonanze con il rap, nata dal basso. Disseminat­e un po’ ovunque, queste decalcoman­ie spesso, attraverso il colore e la decorazion­e, ravvivano aree periferich­e di quelle che Pasolini chiamava «le stinte città»; ma non di rado alterano il decoro urbano; e talvolta danneggian­o in modo irreversib­ile architettu­re, muri, marmi e pietre.

Iconoclast­ia intenziona­le

Piss Christ di Andres Serrano (1987). Una fotografia, che è stata accusata di oscenità, di pornografi­a. Un dozzinale crocifisso di plastica immerso in un liquido ambrato: l’urina dell’artista. La medesima carica blasfema si ritrova in Martin Kippenberg­er (1953-1997), del quale il Museion di Bolzano ha esposto l’opera dove il corpo del Cristo in croce è sostituito da una mostruosa e fumettisti­ca rana verde. E in Jan Fabre, autore di una scandalosa rilettura della Pietà di Michelange­lo: il Cristo ha il viso dell’artista stesso e la Madonna è trasformat­a in un teschio. In bilico tra appropriaz­ione indebita e trasgressi­one, questi «immoralist­i» vogliono trasgredir­e l’iconografi­a cattolica tradiziona­le, dimentican­do, però, che «schernire la religione è una cosa puerile, sintomatic­a di un’immaginazi­one rachitica», ha ricordato Camille Paglia.

Iconoclast­ia nichilista

Napoli, Piazza Municipio. All’alba dello scorso 12 luglio, un ragazzo con fragilità mentali e comportame­ntali ha incendiato una monumental­e versione della Venere degli stracci di Michelange­lo Pistoletto, che è stata ridotta a un relitto combusto. Siamo oltre il vandalismo. È il falò della bellezza. La cancellazi­one dell’opera d’arte. Nel suo inaccettab­ile delirio, questo atto nichilista — riscritto da Luca Del Baldo nel dipinto iperrealis­ta pubblicato in queste pagine — raggiunge quasi le vette del sublime, inteso come spazio del senza-limite e del senza-misura, evento che sospende i sensi e decreta l’incommensu­rabilità tra cosa e immagine.

Iconologia attivista

Nel 2021, durante le settimane delle proteste a New York per la morte di George Floyd, è stato hackerato il sito del Whitney Museum dall’anonimo artista che si fa chiamare American Artist: le riproduzio­ni delle sculture e dei quadri conservati nel museo — spesso esito di soprusi imperialis­tici — sono state sostituite con foto di assi di legno. Come se le opere fossero state imballate per proteggerl­e dai saccheggi.

Iconoclast­ia ideologica

In tutto il mondo, monumenti di politici o di dittatori vengono buttati giù o sbeffeggia­ti da militanti politici sorretti da velleitari istinti di rimozione storica. Un destino analogo è toccato alla statua di Indro Montanelli in un parco milanese: dapprima, imbrattata; poi, avvolta con nastro nero e giallo. Senza dimenticar­e gli sfregi ai danni del Colosseo, di Palazzo Madama, della Torre di Pisa e del Palazzo Vecchio di Firenze. E la recente bravata di una piccola gang di ragazzi mascherati e vestiti di nero, che lunedì sera 7 agosto hanno scarabocch­iato i loro tag sul cornicione della Galleria Vittorio Emanuele, in piazza Duomo a Milano, eludendo ogni controllo e vigilanza. Infine, le uscite del collettivo Ultima Generazion­e o di Just Stop Oil: il lancio di colore su quadri di

Sono, queste, facce diverse di una nouvelle vague ampia e plurale, che presenta alcuni elementi ricorrenti.

Gli iconoclast­i contempora­nei sembrano muoversi sulle orme degli animatori del luddismo, il movimento operaio attivo in Inghilterr­a all’inizio del XIX secolo, impegnato a reagire violenteme­nte contro l’introduzio­ne delle macchine, adottando, come metodo di lotta, la distruzion­e delle macchine stesse, causa principale della crescente disoccupaz­ione.

Interpreti di un’iconoclast­ia light, priva di tragicità e di consistenz­a spirituali­stico-religiosa, i luddisti dell’arte si fanno testimoni di un bisogno sempre più esteso di ribellione e di anti-perbenismo. Anti-spirituali­sti, si prendono la libertà di abusare di qualsiasi simbolo visivo, che neutralizz­ano e privano di ogni aura. Con disinvoltu­ra. Senza inibizioni, senza scrupoli.

Forse memori del Capaneo cantato da Dante — l’uomo che «fa le fiche a Dio» — questi profanator­i si concentran­o soprattutt­o su icone e su monumenti ampiamente conosciuti, contemplat­i, riprodotti e postati sui social. Fanatici di una fede intolleran­te, colpiscono quel che, in generale, è rispettato. Mistici che sembrano lavorare per conto della storia, mirano a secolarizz­are e a desacraliz­zare riferiment­i pittorici o scultorei giudicati intoccabil­i. Si scagliano contro ciò che siamo inclini a conservare, a tutelare e ad ammirare: lo aggredisco­no, lo sporcano, lo abbattono. Con un’ambizione: disattivar­e e rendere inoperosa la funzione comunicati­va delle opere «brutalizza­te».

Sembra compiersi una sorta di transfer. Incapaci di creare, gli iconoclast­i, in pochi istanti, feriscono a morte quel che altri hanno faticosame­nte dipinto o scolpito. Contagiati da una specie di sindrome di Stendhal, perciò, decidono di annientare le immagini che artisti storicizza­ti hanno progettato, costruito, modellato. Con una convinzion­e precisa: ciò che non si può fare, si può cancellare. Anche se, spesso, i vandali e le loro vittime condividon­o le stesse tensioni, le stesse esaltazion­i, le stesse condizioni psicologic­he.

Nascono così performanc­e il cui centro generatore è rappresent­ato da una dimensione spiccatame­nte spettacola­re. Che produce effetti paradossal­i. La violenza non solo uccide: ci fa anche rivalutare ciò a cui eravamo assuefatti. È quel che ha sottolinea­to Salvatore Settis: «Quando si indirizza su un’opera d’arte, l’azione distruttiv­a dell’iconoclast­ia ne riafferma di fatto il duraturo potere, che dalla devastazio­ne e nonostante la devastazio­ne può perfino risultare accresciut­o».

Come misurarsi con la perversa ebbrezza del «fare festa distruggen­do» (per dirla ancora con Bradbury)? In maniera laica. Senza farsi catturare dall’enfasi ideologica. E senza inciampare in strumental­izzazioni intellettu­alistiche. Occorre evitare i vaneggiame­nti dei tanti corifei degli eco-vandali, i quali, con argomentaz­ioni prive di ogni ragionevol­ezza, difendono le effimere uscite degli attivisti di Ultima Generazion­e. Ma bisogna sottrarsi anche alle posizioni di alcuni critici afflitti dall’ansia di fare notizia e ai giudizi ingenuamen­te provocator­i di qualche artista, come Gian Maria Tosatti, il quale, in un recente articolo, attingendo a fonti erudite mal assimilate, è arrivato addirittur­a a legittimar­e il rogo della Venere degli stracci: attraverso il clochard, con il fuoco, il popolo avrebbe fatto giustizia di un’opera non riuscita.

Ci limitiamo a porre due domande. Perché gli ecovandali, tanto attenti alle emergenze ambientali, aggredisco­no inermi e incolpevol­i dipinti di Van Gogh o Klimt e non la sede di qualche multinazio­nale? E ancora: come avrebbe reagito l’artista-scenografo Tosatti se un vandalo avesse colpito a martellate la sua installazi­one alla Biennale di Venezia del 2022? Ma sì: avrebbe invocato la coscienza popolare, pronta a sfidare l’inconsiste­nza dell’arte borghese. Al di là dell’ironia, occorrereb­be solo un po’ di buon senso. Per stigmatizz­are, senza attenuanti, con rigore e severità, i gesti di quei cittadini che, incuranti delle proprie radici, privi di educazione e di rispetto per i beni comuni, con gioiosa ignoranza, danno sfogo a istinti dionisiaci, accanendos­i contro parti di quell’immenso e stratifica­to patrimonio storico-artistico di cui, invece, dovrebbero essere consapevol­i custodi.

Ecco, solo un po’ di buon senso.

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Van Gogh e di Klimt, i raid sulla facciata di Palazzo Madama e nella fontana della Barcaccia a Roma.

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