Corriere della Sera - La Lettura
Rubens l’italiano
Una doppia esposizione — alla Galleria Borghese ea Palazzo Te — si appresta a rendere omaggio al più celebre e celebrato fiammingo, pittore europeo, poliglotta, di casa nelle corti del continente, con botteghe affollate di collaboratori (fino a duecento)
Il grande storico dell’arte statunitense Bernard Berenson fu il primo a sostenerlo, con un’affermazione tanto apodittica da assumere quasi la forza di un aforisma: Pieter Paul Rubens (1577-1640) — scrisse — «è un pittore italiano». Senza se e senza ma. Nei secoli, però, non saranno in tanti ad allinearsi a una lettura critica che poteva apparire estrema per il più celebre, e celebrato, dei fiamminghi.
Ora il tema ridiventa centrale nella doppia esposizione che due prestigiose istituzioni culturali, Palazzo Te a Mantova e la Galleria Borghese a Roma, si apprestano a dedicare all’artista che per primo e più di ogni altro seppe conquistare i favori dell’intero continente europeo e delle relative corti: nelle «sue» Fiandre, in Italia, Spagna, Francia, Inghilterra... Titolo del progetto comune: Rubens! La nascita di una pittura europea, con il punto esclamativo che da mero segno d’interpunzione si fa simbolo di un’arte grandiosa, solenne, teatrale... Un’arte studiata e imitata per secoli: «È di gran lunga il più grande pittore di tutti i tempi, dal punto di vista della materia pittorica, del modo di adoperarla e della varietà del suo repertorio» ebbe a dire di lui Federico Zeri, in linea con quanto già asserito in passato da un vastissimo pantheon di ammiratori, da Friedrich Nietzsche — «Personalmente io stimo van Dyck e Rubens superiori a tutti i pittori del mondo», lettera a Malwida von Meysenbug del 13 maggio 1877 — fino a Charles Baudelaire, il cui omaggio al fiammingo apre la poesia I fari, sesto componimento dei Fleurs du mal :« Rubens, fleuve d’oubli, jardin de la paresse,/ Oreiller de chair fraîche où l’on ne peut aimer,/ Mais où la vie afflue et s’agite sans cesse,/ Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer».
«Fiume d’oblio, di pigrizia giardino,/ guanciale di fresche carni che non l’amore/ ma la vita smuove e percorre infinita/ come aria nel cielo, onda sull’onda»: la definizione dello scrittore francese (proprio il trionfo delle carni luminose diverrà uno dei marchi della pittura rubensiana) evoca con la forza della poesia l’arte del coltissimo Pieter Paul, che appena ventitreenne giunse in Italia in una calda estate dell’anno giubilare 1600. Ci resterà, più o meno stabilmente, per otto anni: a Venezia, a Genova, pittore di corte dei Gonzaga a Mantova, a Roma... Le due mostre, sia pur con punti di vista differenziati e complementari, mirano a non trascurare proprio la fondamentale componente italiana della formazione dell’artista, ma sopratutto l’impronta che il ma
estro lasciò sui contemporanei e sulle generazioni a venire, compreso Gian Lorenzo Bernini (di ventuno anni più giovane).
Ed è proprio questo uno degli spunti principali da cui muove la seconda (in ordine cronologico) esposizione, allestita dal 14 novembre al 18 febbraio alla Galleria Borghese, che dell’opera di Bernini è in qualche modo la casa-madre, il «tempio». Una mostra curata da Francesca Cappelletti e Lucia Simonato, dal suggestivo titolo Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma, e che grazie all’ausilio di circa quaranta prestiti esterni da grandi musei del mondo — Louvre, Prado, British Museum, Metropolitan di New York, National Gallery di Washington e Uffizi, tra gli altri — racconterà il contributo straordinario dato dall’artista, alle soglie del Barocco, a una nuova concezione di antico ,di naturale edi imitazione, mettendo a fuoco la novità dirompente del suo stile.
La Galleria Borghese, nella sua eccezionalità di contenitore/contenuto (e con due opere di Rubens in collezione), offrirà l’occasione inedita di vedere in simultanea grandi gruppi berniniani, esemplari di statuaria antica e altre sculture di età moderna, spesso opera di artisti stranieri, in relazione diretta con quadri e disegni del maestro di Anversa, cogliendo sia l’energia creativa con cui seppe investire (e stravolgere, citandoli) i capolavori dell’antichità, sia l’inventio con cui si fece maestro, in Italia e altrove.
I pezzi esposti sono stati scelti dalle due curatrici uno a uno, impaginando una mostra con rigoroso impianto scientifico, ma che punta anche a evidenziare sorprendenti affinità di linguaggio (ancora Rubens/Bernini) su determinati temi: c’è ad esempio una spettacolare sezione dedicata ai «muscoli», e un altrettanto suggestivo serraglio di animali, in terracotta o a matita nera e biacca, in cui si fronteggiano leoni e leonesse dei due geni. Quanto ai grandi gruppi borghesiani di Bernini «in mostra — spiegano le curatrici — si potrà misurare quanto questi capolavori siano in debito con il naturalismo rubensiano, così come lo furono di certo altre sculture giovanili dell’artista, quali la Carità vaticana nella Tomba di Urbano VIII, già giudicata dai viaggiatori europei del tardo Settecento “una balia fiamminga”».
Collezionista e gran conoscitore di antichità romane, appassionato di letteratura classica (scriveva anche in latino), autore di un trattato a lui attribuito dal titolo De imitatione statuarum, Rubens da moderno umanista si pose davanti alle testimonianze del passato con sguardo capace tanto di comprendere, quanto di innovare dando vita a un linguaggio universale destinato di lì a poco a primeggiare in tutta Europa («E benché egli stimasse sommamente Raffaello e l’antico — notava già Giovan Pietro Bellori nel 1672 — non però imitò mai l’uno o l’altro in parte alcuna; e se avesse voluto seguitare i lineamenti delle statue di Apolline, di Venere o del Gladiatore, li alterava tanto con la sua maniera che non lasciava di esse forma o vestigio per riconoscerle»).
Lo studio di modelli preesistenti come fonte dunque di un mondo di immagini radicalmente nuovo: dal disegno a sanguigna con cui colora, animandola di fantasia, la famosa statua dello Spinario (a cui però fa girare la testa), fino al doppio ritratto di Agrippina e Germanico che emula, reinventandola, l’arte dei cammei antichi: la mostra della Borghese intende proprio sottolineare il contributo straordinario dato da Rubens, alle soglie della stagione del Barocco di cui fu uno dei grandi pionieri, a una nuova visione d’arte, mettendo a fuoco in cosa consista la novità — dirompente — del suo stile già nel primo decennio a Roma, città dove l’ancor giovane maestro fiammingo realizzò anche alcune tra le sue prime committenze di prestigio: nella chiesa della Vallicella e a Santa Croce in Gerusalemme (tre pale d’altare tra 1601 e 1602, nella cappella dedicata a sant’Elena, due oggi in Francia e un’altra andata perduta), su incarico dell’arciduca Alberto VII, cardinale titolare della basilica prima di rinunciare alla porpora per sposare l’infanta di Spagna diventando principe delle Fiandre.