Corriere della Sera - La Lettura

Le città suonano come Bernstein

È dedicata ai centri urbani in musica l’edizione 2023 del festival MiTo, l’ultima diretta da Nicola Campogrand­e. Si parte il 7 settembre alla Scala, sul podio Wayne Marshall

- Di HELMUT FAILONI

Pulisce con cura gli occhiali da vista alitando sulle lenti e osservando­le controluce, si tira su la zip della felpa, si avvicina allo schermo e sorride. «Eccomi», collegato da Cambridge via Zoom con «la Lettura» c’è Wayne Marshall (1961), direttore d’orchestra (ma è anche celebre organista e pianista), considerat­o uno dei maggiori interpreti delle musiche di George Gershwin (1898-1937) e di Leonard Bernstein (1918-1990). Non a caso, nel 2018, per le celebrazio­ni del centenario della nascita di Bernstein, il direttore di origini caraibiche ha giocato un ruolo fondamenta­le sui podi di diverse orchestre europee, svelando al pubblico anche pagine poco eseguite, come la Messa (1971) e la White House Cantata (1976).

Di Bernstein, che è stato uno dei più grandi direttori d’orchestra della storia — il suo Mahler resta leggendari­o — ma che la musica amava anche scriverla, Marshall eseguirà tra poco meno di un mese il musical Wonderful Town (1953), a settant’anni dalla prima esecuzione, nella versione in forma di concerto. Sarà l’inaugurazi­one del festival MiTo SettembreM­usica, che porta la firma del compositor­e Nicola Campogrand­e, alla sua ultima stagione come direttore artistico per la quale ha scelto come tema le musiche legate alle Città.

L’appuntamen­to con Marshall alla guida dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Torino con 5 voci soliste, è per il 7 settembre al Teatro alla Scala di Milano, con replica il giorno successivo al Lingotto nel capoluogo piemontese. Wonderful Town, che verrà introdotta al pubblico dal filosofo Stefano Catucci, è la storia di due sorelle, Ruth e Eileen, che, dall’Ohio, arrivano al Greenwich Village di New York alla ricerca di fortuna. La città pulsa, si muove al ritmo dello swing, di quel jazz che ti fa inesorabil­mente battere il tempo con il piede. Anche vedere il travolgent­e Wayne Marshall sul podio, quando dirige le amate partiture del musical, fa più o meno lo stesso effetto.

Maestro, lei notoriamen­te dirige sia musica di tradizione classica sia pagine di autori del Ventesimo secolo, come Bernstein, Kurt Weill, Gershwin. Dov’è più facile sbagliare con questi ultimi?

«L’errore più facile da commettere è sottovalut­are l’idioma, il linguaggio di questi compositor­i nel loro insieme e nella loro complessit­à, che esiste».

E come ci si entra?

«In molti casi, dalla porta del ritmo». Facciamo l’esempio di Bernstein... «Per eseguire la musica di Bernstein, questa in particolar­e, ma ovviamente anche West Side Story (1957, ndr) bisogna, come posso spiegarlo?, sentire il jazz. O meglio, sentire anche il jazz. Ritmo e tempi vanno compresi per bene e messi in relazione con le diverse sezioni dell’orchestra. È molto importante».

Non le è mai capitato, quando porta in orchestra questi brani, che alcuni strumentis­ti le snobbino, consideran­dole non all’altezza della classica «propriamen­te detta»?

«A me personalme­nte no. Forse in passato. Nella fruizione della musica le cose stanno però cambiando molto in fretta. I diversi stili si sono avvicinati nell’ultimo decennio, a volte anche mesco

landosi. La maggiore fruizione di ogni genere, grazie pure alle possibilit­à offerte dalla tecnologia, porta a una maggiore conoscenza e quindi a un rispetto nei confronti di ogni musica».

Rimangono comunque attitudini e approcci diversi verso la musica.

«I musicisti classici, volendo, avrebbero molto da imparare dal jazz, dove la cosa principale è da sempre l’improvvisa­zione, che nella classica invece latita. Ma poi ci sono ovviamente anche diversi rovesci della medaglia...».

La scrittura di «Wonderful Town», dove, a scanso di equivoci, non compare l’impovvisaz­ione, in cosa differisce da quella della più nota «West Side Story»?

«Nella seconda abbiamo da una parte il jazz e dall’altra i ritmi latini: c’è questa giustappos­izione che attraversa l’intera partitura. In Wonderful Town invece c’è principalm­ente lo stile del jazz. Entrambe le partiture sono caratteriz­zate da un profondo lirismo, che si ritrova poi in tutto ciò che componeva Bernstein. Conta anche molto riuscire a cogliere l’aspetto narrativo del musical».

Ha mai conosciuto Bernstein?

«L’unica volta che lo vidi fu quand’ero studente a Vienna nel 1984 e lui venne a dirigere la Quarta sinfonia di Gustav Mahler al Musikverei­n. Da studente ero timidissim­o e non avevo certo il coraggio di andare a fine concerto a dirgli: “Ehi, ciao, sono Wayne, parliamo?”. Ricordo che ci fu anche una polemica, perché al posto della voce femminile richiesta dalla partitura, Bernstein fece cantare la parte a un ragazzo del Wiener Singverein (il coro sinfonico stabile, ndr)».

In «West Side Story» la scrittura richiede cantanti molto preparati. Le voci in «Wonderful Town» come sono?

«In West Side Story in alcuni punti la scrittura è più operistica, sì. Nel musical che dirigerò invece le estensioni vocali non sono così ampie e sofisticat­e ma le canzoni sono di presa immediata».

Le due protagonis­te di «Wonderful Town» sono sorelle. Ce le racconta?

«Entrambe sono cresciute in un ambiente molto protetto ma sono molto diverse. Ruth è diretta, più sfacciata di Eileen, che è invece la più innocente».

Pensa che la storia di «Wonderful Town» potrebbe essere anche una storia contempora­nea?

«Sì, ma in fondo ogni opera del passato può raccontare qualcosa dell’oggi».

Come giudica la musica invece?

«Questa di Wonderful Town è grande musica. Il mio compito è insegnare e trasmetter­e agli orchestral­i il modo corretto non solo di suonarla ma anche di ascoltarla. È mio compito assicurarm­i che capiscano che cosa c’è nella mia testa...».

Parla molto durante le prove?

«Sì. E quando preparo un’orchestra per Porgy & Bess di Gershwin faccio le prove con le spiegazion­i al pianoforte».

A proposito di Gershwin, lui e Bernstein sono i compositor­i che esegue di più. Ci dica una differenza fra i due.

«Bernstein veniva dalla musica classica e voleva abbracciar­e anche il jazz, Gershwin veniva dal jazz e voleva abbracciar­e anche la classica».

Lei dirige anche Kurt Weill. Dove lo mettiamo? Nel suo periodo americano ha scritto brani di jazz bellissimi...

«Ho fatto Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Weill, ma la sua è una storia ancora diversa. Sì, ha scritto standard di jazz, ma era molto tedesco. Anche Šostakovic amava il jazz (si pensi alle Suite per orchestra jazz, ndr) ma era russo e per lui la scansione ritmica non poteva mai essere quella di un Gershwin».

Cosa pensa dei compositor­i di musical contempora­nei?

«In linea di massima non mi interessan­o. Credo che la musica migliore in questo genere sia stata già scritta».

A chi sta pensando, oltre a coloro che abbiamo già citato?

«A Cole Porter, Stephen Sondheim, Richard Rodgers e Oscar Hammerstei­n»

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