Corriere della Sera - La Lettura
Sono un italiano sbagliato
Una mostra a Trieste propone un viaggio nel cinema di Pier Antonio Quarantotti Gambini, scrittore istriano antifascista e anticomunista: foto di scena, locandine, sceneggiature, proiezioni
Il romanziere Scrittore e giornalista, Pier Antonio Quarantotti Gambini (nella foto in alto) è nato a Pisino, oggi Croazia, nel 1910 ed è morto a Venezia nel 1965. Il volume Opere scelte di Quarantotti Gambini è uscito nel 2015 nei Classici Bompiani a cura di Mauro Covacich. Dalle sue opere sono stati tratti tre lungometraggi: Les Régates de San Francisco (1960), diretto dal francese Claude Autant-Lara, ispirato a L’onda dell’incrociatore del 1947 (in Italia distribuito col titolo Il risveglio dell’istinto); La calda vita (1964), del regista Florestano Vancini, dal romanzo del 1958; La rosa rossa (1973), diretto da Franco Giraldi L’appuntamento Quattro passi nel cinema di Pier Antonio Quarantotti Gambini — foto di scena, locandine, manifesti, sceneggiature e soggetti — è curata da Franco Però e Piero Delbello al Teatro Miela di Trieste fino al 27 agosto (tutti i giorni, tranne il giovedì, ore 19-23). Il 22 saranno proiettati Il risveglio dell’istinto e La calda vita
A destra, dall’alto: il poster de La calda vita, dattiloscritto di un soggetto sconosciuto per un film, il manifesto di Les Régates de San Francisco
«Un italiano sbagliato», così si definisce nell’ultima intervista. Tre mesi dopo viene colto da un malore al termine di un’accesa discussione nella quale un membro della nobiltà veneziana lo rimproverava di essersi spostato a sinistra tradendo la loro posizione. «Quale nostra posizione?! Io e lei non abbiamo mai avuto la stessa posizione!». Poi, per strada, l’infarto.
Il sospetto di essere vicino alla destra è stato lo spettro della sua vita, la scimmia che lo ha accompagnato negli ultimi vent’anni, dai giorni della Liberazione a quella sera di aprile del 1965. Per chi non era triestino, o comunque non conosceva bene la situazione geopolitica della Venezia Giulia, era difficile capire questo scrittore, istriano e antislavo (perché italiano da generazioni), antifascista e anticomunista, un uomo che era nato sotto l’impero austroungarico, cresciuto sotto il regno d’Italia e aveva fatto in tempo anche ad assistere ai primi giorni dell’occupazione titina di Trieste, prima di riparare a Venezia con una fuga a dir poco rocambolesca. Un italiano sbagliato, appunto. Il fatto è che questa sua anomalia è stata anche la causa principale del suo oblio, quando per qualità letteraria e personalità Quarantotti Gambini poteva figurare tranquillamente tra i grandi irregolari del Novecento italiano, insieme a Curzio Malaparte, Giovanni Comisso, Goffredo Parise.
Ora al Teatro Miela di Trieste è stata allestita la mostra Quattro passi nel cinema di Pier Antonio Quarantotti Gambini, a cura di Franco Però e Piero Delbello. Si tratta di fotografie di scena, locandine, manifesti, sceneggiature e soggetti che restituiscono un po’ di luce al narratore istriano, che negli anni Cinquanta e Sessanta era un romanziere di fama, con diversi libri tradotti in Europa, dai quali sono stati tratti tre film, La calda vita di Florestano Vancini, La rosa rossa di Franco Giraldi e Les régates de San Francisco di Claude Autant-Lara (titolo ripreso dalla traduzione Gallimard dell’Onda dell’incrociatore). Quest’ultima trasposizione è stata la più sofferta per il nostro, a causa di una lunghissima gestazione (13 anni), di vari e sempre nuovi problemi produttivi, dell’ambientazione spostata da Trieste a Villefranche, dei cambiamenti radicali introdotti nel finale e della sostituzione del titolo, che in Italia diventerà curiosamente Il risveglio dell’istinto. Non aiutarono certo le incomprensioni con il regista, peraltro specializzato nell’adattamento cinematografico di opere letterarie, reduce di lavori tratti da Raymond Radiguet, Stendhal, Georges Simenon, ma credo che il dolore più grande per Quarantotti Gambini venisse dalla consapevolezza che in quei tredici anni non aveva più raggiunto, né lo avrebbe fatto nei pochi altri rimastigli, lo stato di grazia dell’Onda dell’incrociatore.
Nel ’43 Giulio Einaudi, rifugiato in Svizzera, gli telefona per chiudere il contratto di quel gioiello, uscito poi nel ’47 (la telefonata precedente, glielo ricorderà nei momenti di tensione, l’aveva fatta a Ernest Hemingway). È così che comincia un sodalizio tra un editore impegnato e uno scrittore sentimentale, sodalizio che durerà fino alla morte di Quarantotti Gambini, con la pubblicazione di sei romanzi e la costruzione di un ciclo ambizioso, Gli anni ciechi, interrotto dalla precoce fine del nostro, che lo sorprende a 55 anni, prestante e sostanzialmente in buona salute. Ma oltre all’attitudine del romanziere, Einaudi riconosce in Quarantotti Gambini anche una peculiare propensione d’osservatore della realtà, una specie di sguardo ingenuo, o meglio, sospeso, che gli permette di farsi attraversare dalle cose senza giudicarle.
Da questa intuizione einaudiana nasce, ad esempio, la proposta di un viaggio in Russia, l’esperienza di uno scrittore non comunista immerso per qualche settimana nella società sovietica dei primi anni Sessanta, meraviglioso affresco di un autore che non nasconde sulla pagina i suoi numerosi dubbi e ripensamenti, regalandoci così anche un pezzo importante della sua intimità. Sotto il cielo di Russia uscirà nel 1963, l’anno dei giovani leoni della neoavanguardia, eppure Quarantotti Gambini supera l’esame. L’editore ne è felice forse più dell’autore: di fronte all’arte non c’è barriera ideologica che tenga. Solo sulle opere postume Einaudi oppone un’inaspettata resistenza, non è chiaro se con l’intento di proteggere Quarantotti Gambini o sé stesso. La composizione in versi rinvenuta dal fratello Alvise verrà pubblicata da Mondadori con il titolo Racconto d’amore. D’altronde, fuori ci sono i novissimi che non aspettano altro che piantare i canini sugli sdilinquimenti presenili di un autore, in fondo mai capito, poco somigliante a Carlo Cassola ma certo lontano anni luce dalla loro poetica. E così Giulio Einaudi preferisce passare la mano.
Il fatto è che Quarantotti Gambini era l’allievo più affezionato e ortodosso di Umberto Saba. Da Saba aveva imparato a scrivere, ma vorrei dire che da Saba aveva imparato a sentire. Quando, una sera d’inverno del 1929, s’aggiunge alla tavolata del Caffè Garibaldi questo diciannovenne di due metri appena arrivato da Capodistria, Saba gli profetizza subito un futuro di scrittore. I due non smetteranno di scriversi e di frequentarsi. A tenerli avvinti è il comune approccio alla letteratura, la condivisione di una medesima linea formale, la ricerca zen di una semplicità che sappia parlare al cuore. Per Quarantotti Gambini, il maestro triestino è il modello lirico di questo assunto, mentre per Saba il suo pupillo istriano ne è la versione narrativa. In modo diverso entrambi rappresentano l’alternativa al canone sveviano, un’alternativa legata all’immediatezza dei sensi, dall’eleganza comprensibile a tutti, grazie a parole chiare il cui lessico ha l’unica prerogativa di essere intriso nel calore umano.
«Il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge», scrive Quarantotti Gambini in una delle ultime lettere al poeta del Canzoniere. La mostra al Miela è il modo migliore per apprezzare la fondatezza di questo aforisma.