Corriere della Sera - La Lettura
I fucilieri rimossi della storia francese
Arriva nelle sale «Io sono tuo padre», diretto da Mathieu Vadepied (che abbiamo intervistato), interpretato e anche prodotto da Omar Sy. «Venivano dall’Africa, hanno combattuto e sono morti per Parigi. Il milite ignoto è uno di loro»
Il loro corpo fu istituito nel 1857 da Napoleone III, i tirailleurs senegalesi — ben presto appartenenti a diversi Paesi, dal Maghreb all’Africa subsahariana — parte delle truppe regolari dell’impero coloniale francese. Furono in prima linea nella conquista del Madagascar alla fine dell’Ottocento, pochi anni dopo si trovarono a combattere in Marocco. La loro ferma durava sei mesi all’anno, spesso non sufficienti a imparare la lingua del Paese di cui indossavano la divisa. Solo con lo scoppio della Prima guerra mondiale i battaglioni di tirailleurs furono portati a servire sul suolo francese. Non più solo volontari, ma arruolati di forza in Africa. Non si conosce il numero esatto di quanti furono reclutati per la Grande guerra, circa 200 mila, ma si valuta ne siano morti 30 mila.
Il corpo fu sciolto nel 1960. E qui comincia una rimozione collettiva della vicenda. Misconosciuta, nonostante l’impegno e le ricerche degli storici. Troppo dolorosa per i protagonisti e le famiglie. Poco edificante per il governo francese.
Il regista Mathieu Vadepied l’ha studiata per anni, facendone lo sfondo della trama di Io sono tuo padre con Omar Sy che ha aperto Un certain regard a Cannes 2022 ed esce in Italia giovedì 24 agosto per Altre storie con Minerva pictures.
Nel 1917 Bakary Diallo (Omar Sy) vive con la famiglia in un villaggio del Senegal dove arrivano i soldati francesi per costringere i giovani ad arruolarsi. Lo farà anche lui, per essere certo che suo figlio Thierno (Alassane Diong) torni a casa sano e salvo.
Perché era importante per lei raccontare questa storia?
«Sono cresciuto con la consapevolezza che la composizione della società francese, e dunque la questione dell’immigrazione, fosse centrale. Una consapevolezza politica dei temi della memoria, di ciò che è la Francia, oggi e nel passato, la sua composizione e la sua popolazione. Ho iniziato da ragazzo a pormi delle domande. C’è anche un motivo personale: avevo un nonno, Raul, che mi ha parlato molto della Prima guerra mondiale. Ha fatto politica tutta la vita, è stato sindaco di una cittadina della Loira, Évron, gemellata con una della Costa d’Avorio, Lakota. Ricordo da piccolo delegazioni che venivano in visita, mi incuriosivano le differenze e gli aspetti della storia comune. Ho sempre notato la difficoltà della Francia di affrontare il passato coloniale».
Che tipo di ricerche ha fatto con il suo sceneggiatore Olivier Demangen?
«È stato un lavoro di anni, a partire dai testi degli storici sul colonialismo. Ci siamo basati su diversi materiali d’archivio. La difficoltà nasce dal fatto che esistono pochissime testimonianze dirette: quasi nessuno di questi soldati parlava francese, la trasmissione orale è stata minima».
Perché un padre e un figlio insieme al fronte, a Verdun?
«Volevo rendere omaggio al sacrificio di questi uomini, e attraverso loro a tutti i soldati che hanno partecipato ai conflitti mondiali e alle guerre coloniali, alle generazioni di tirailleurs che hanno sacrificato la vita. Volevo indicare un possibile cammino di trasmissione: i personaggi di padre e figlio sintetizzano la complessità e l’ambiguità di questa eredità».
La vostra ipotesi, suggestiva, è che il milite ignoto sepolto all’Arc de triomphe sia senegalese.
«Non si può sapere chi fosse quel soldato; li rappresenta tutti. E tutti significa anche i soldati arrivati dall’Africa. Mi venne in mente nel 1998, alla morte del’ultimo soldato senegalese, Abdoulaye Ndiaye, di 104 anni, arruolato nel 1914. Per ironia della sorte, morì il giorno prima di ricevere la Legion d’Onore dal presidente Jacques Chirac. Perché il milite ignoto non potrebbe essere un tirailleur? Abbiamo fatto delle ricerche: è storicamente possibile. È la prima domanda che ho posto a Omar Sy. Lui ha dato la stessa mia risposta: perché no?».
Come avete coinvolto Omar Sy, che ne è anche produttore, nel film?
«Nel 2010, durante le riprese di Quasi amici (di cui Vadepied è stato direttore artistico e direttore della fotografia, ndr) l’ho incontrato e gli ho parlato del progetto. Non era ancora così famoso. Con il mio produttore di sempre, Bruno Nahon, abbiamo pensato che fosse giusto coinvolgerlo non solo come attore. È un progetto atipico per lui che lo ha portato su un terreno delicato: recita nella sua lingua materna, il peul, non in francese, e interpreta un ruolo drammatico. Per lui aveva un significato particolare, sentiva la responsabilità verso la diaspora senegalese».
Lo stesso Omar Sy ha detto che ne sapeva poco...
«Perché è una pagina rimossa. La partecipazione dei fucilieri delle ex colonie alle guerre non è mai stata raccontata come avrebbe dovuto. Non è una storia gloriosa per la Francia. Neanche gli eredi di quei giovani soldati la conoscono. È un dato comune di tutte le guerre: creano traumi difficili da superare, non se ne parla. Nella mia famiglia tutti gli uomini sono morti, sono traumi che lasciano cicatrici. Come ha detto Omar: “Questo film significa moltissimo per me, non abbiamo la stessa memoria, ma abbiamo la stessa storia”. Non ci interessava entrare sul piano delle accuse, colpevolizzare o accusare qualcuno, ma spingere il pubblico a interrogarsi sulla storia comune. Il personaggio di Bakary Diallo non è un simbolo, è un uomo che vive la sua realtà, che cerca di proteggere il figlio».
Il film è stato un grande successo al botteghino francese. Le pare abbia sollevato il dibattito che speravate?
«La cosa più interessante è stata accompagnare il film nelle proiezioni; come sollevare un velo che riguarda tanti, famiglie di origini differenti. Siamo stati anche a Dakar; è stato molto emozionante vedere i giovani spinti a parlarne in famiglia, a fare domande ai genitori, ai nonni, su una storia che li riguarda, legata a questioni quotidiane, come la discriminazione e il razzismo, l’identità, raccontata in un film popolare».
La Francia vive un momento di grande radicalizzazione, le banlieue in rivolta e l’estrema destra che chiede lo stato d’emergenza.
«Ha ragione. Ma io credo nella capacità della cultura di andare oltre, di trovare un terreno comune anche per affrontare le questioni legate alla storia della colonizzazione e della post-colonizzazione. Si tratta di riconoscere il nostro passato per costruire il presente. Serve affrontare vicende senza tabù, partendo dai dati, coinvolgendo tutti quelli che alla storia hanno partecipato. Credo nella possibilità di scrivere una storia comune, non penso che sia un’utopia. È l’unico modo per sottrarsi alle manipolazioni. Ci siamo dentro tutti».