Corriere della Sera - La Lettura
Medea dannata in teatro riabilitata dall’arte
Francesca Ghedini dimostra come affreschi, mosaici, sarcofagi e vasi restituiscano spesso un’immagine dei personaggi femminili antichi meno maledetta di quella codificata nei testi classici, come le tragedie greche o l’opera di Seneca
Afrodite, la dea dell’amore, non è mai stata un modello di fedeltà coniugale. Ma un giorno l’ha fatta davvero grossa. Ha portato Ares, dio della guerra, nel suo letto nuziale e il Sole, che tutto vede, l’ha denunciata al marito. Efesto, il fabbro dell’Olimpo, zoppo ma furbo, si vendica. Forgia con metalli preziosi una rete sottilissima e la fa scendere sui due fedifraghi incatenandoli al letto. Poi invita gli dèi a constatare l’adulterio. Gli immortali — tutti maschi, perché le femmine per pudore sono rimaste nell’Empireo — fanno apprezzamenti pecorecci sulla mogliettina e si propongono come stalloni. Facendo infuriare Afrodite, che giura di vendicarsi su quello spione del Sole. Il gran lume del mondo a onor del vero non poteva fare altrimenti essendo il garante di tutti i matrimoni, in quanto patti solenni, cioè stipulati alla luce del sole. Fatto sta che dopo quella mitica scappatella l’onorabilità delle donne non è più stata la stessa. Lo racconta Francesca Ghedini in Maledette. Le donne nel mito, edito da Marsilio e arricchito da una magistrale prefazione di Maria Grazia Ciani.
L’autrice, docente emerita di Archeologia a Padova, con dotta leggerezza racconta i miti alla base della cattiva fama che accompagna il gentil sesso fin dall’antichità greco-romana e in seguito riconfermata dalla misoginia cristiana. Paradossalmente la colpa è proprio di Afrodite, o Venere che dir si voglia. Perché quel giorno fatidico maledice il Sole e la sua discendenza, composta da donne famose la cui vita sarà tutta una tragedia.
Medea, la madre degenere che uccide i figli per punire il marito Giasone che l’ha abbandonata. Pasifae, la regina di Creta che si innamora di un toro e si accoppia contro natura partorendo il mostruoso Minotauro. Circe, la temibile maga che seduce Ulisse e trasforma i suoi uomini in porci. Arianna, che dà un gomitolo del celebre filo all’amato Teseo perché non si perda nel labirinto e in cambio viene abbandonata a Nasso, da cui il nostro piantare in asso. Fedra, travolta da un amore incestuoso e non ricambiato per il figlio adottivo, lo fa condannare a morte accusandolo di stupro.
Cinque archetipi della femminilità, sui quali sono stati versati fiumi di inchiostro, dal teatro al romanzo, dal racconto alla vox populi. La novità di questo libro è che alle fonti scritte e orali Ghedini accosta le immagini provenienti da affreschi e vasi, mosaici e statue, sarcofagi e coppe. Raccogliendo una serie di attenuanti che ridimensionano le colpe di queste donne infelici. E il primo degli omissis nelle loro fedine penali è proprio la correità di Afrodite. Che le fa trafiggere una a una dalle frecce del figlioletto Eros. Rendendole folli d’amore, schiave inconsapevoli di una passione cieca e distruttiva.
Il caso di ingiustizia mitica più clamoroso è proprio quello apparentemente inappellabile di Medea, la «barbara venefica» che ha tradito patria e famiglia per consegnare il magico vello d’oro al greco Giasone e fargli così riavere il suo regno. La nipote del Sole, dal quale ha ereditato il bagliore selvaggio degli occhi, è stata condannata a un «fine pena mai» dal genio teatrale di Euripide, che nella tragedia omonima esaspera lo splatter inventando l’epilogo in cui la maga uccide i figli Mermero e Fere. A calare sulla vicenda un ulteriore carico da novanta è Seneca, che nella sua Medea prevede un gran finale, dove la «crudele e inflessibile» figlicida sale sul cocchio del sole trainato da serpenti alati, e vola in un cielo «dove non ci sono dèi», perché non c’è pietà né redenzione. Dopo la cupa lettura senechiana Medea non ha più pace.
Eppure, nel mondo artistico romano ha una certa fortuna una variazione sul mito che rappresenta una Medea divorata dal dubbio ed esitante di fronte all’orrore che sta per compiere. In più, la vita avventurosa della bionda principessa orientale è costellata di episodi positivi. Come la lotta vittoriosa contro il gigante di bronzo Talos. O la rinuncia ai poteri magici, per diventare in tutto e per tutto una donna greca, madre amorosa e timorata degli dèi. O il matrimonio con il re di Atene Egeo, cui dà finalmente un erede, Medo. E infine, la restituzione del trono al padre Aietes, spodestato dal figlio, con il sospirato perdono genitoriale.
Tuttavia, l’autorità secolare di Euripide e Seneca ha finito per sopprimere queste attenuanti. Soprattutto in Magna Grecia, dove i figli «so’ piezze ’e core». Non a caso a Punta Ristola vicino a Santa Maria di Leuca, il Finisterre del Salento, due scogli sono identificati con i figlioletti di Medea che si lamentano nelle notti di tempesta.
E non meno esemplare è il caso dell’amore proibito di Fedra, la luminosa. Anche la regina di Atene è più vittima che padrona del suo destino. Spesso viene raffigurata solitaria, malinconica, in preda al mal d’amore mentre scrive una lettera di passione al figliastro bello e impossibile. Altre immagini raffigurano invece il suo suicidio. E accanto a lei c’è sempre Eros. È una forma di delazione artistica per ricordare che il vero colpevole è il fanciullo alato, che trasforma l’amore in una malattia inguaribile.
Di fatto la lettura di Francesca Ghedini illumina regioni dimenticate dell’immaginario occidentale. Mostrando che queste dame nere del mito sono state raccontate sommariamente e tendenziosamente. Insomma, sono donne maledette perché sono state dette-male.