Corriere della Sera - La Lettura
La differenza tra turisti e viaggiatori
Attrice e regista, porta in scena «I monologhi dell’atomica» su Nagasaki e Cernobyl
Siamo i primi turisti che vedono dopo la guerra. Non siamo turisti, Turner, siamo viaggiatori.
Che differenza c’è?
Un turista pensa al ritorno a casa fin dal momento dell’arrivo, laddove un viaggiatore può anche non tornare.
Questo è l’inizio di Il tè nel deserto Bernardo Bertolucci tratto da Sheltering Sky di Paul Bowles e per ragionare sul teatro vorrei partire da qui, dalla differenza tra turista e viaggiatore.
Riflettere sulle parole è interessante: per esempio oggi se uno spettacolo merita si dice «sold out» ovvero «Venduti tutti biglietti»; una volta si diceva: «C’era tanta gente». Cos’è accaduto? Il teatro è uno specchio onesto e banalmente siamo diventati tutti o venditori o clienti. Sempre. Ci si può sottrarre senza escludersi? Che differenza c’è tra spettatore e cliente? Che differenza c’è tra fare uno spettacolo e fare teatro ?Le due cose coincidono sempre? Siamo ancora in grado di distinguere le differenze tra le parole? Il linguaggio è destrutturato, le parole svuotate e dietro ai numeri spesso si nasconde un vuoto: niente rimarrà perché tutto è stato fatto per essere consumato, divorato e mandare i conti al ministero dimostrando di essere bravi per avere sempre più denaro.
E come è valutato il successo di un progetto? Se gli spettatori hanno gradito? Il numero di under 35? Il prestigio di un evento culturale? Ecco questa parola grande e sempre più astratta. Leggere Leopardi è di per sé culturale e poetico e avere Brecht in cartellone culturale e politico? E l’interesse per lo spettatore è cura per il suo spirito critico o sono semplici tecniche di marketing che puoi trovare su Google digitando «generare Hype»: coinvolgere il cliente perché lui stesso faccia promozione, creare backstage, fare sondaggi eccetera.
Non è un male ovviamente desiderare pubblico ma questo meccanismo bulimico come ha mutato il modo di fare teatro? I soldi sono sempre la cura e la soluzione? (Mi viene in mente lo spirito senza volto della città incantata di Hayao Miyazaki).
Dunque cosa c’entra tutto questo con il teatro come esperienza collettiva che dovrebbe produrre pensiero critico e autodeterminazione? Forse quando si parla di declino si parla di uno spostamento progressivo che a un certo punto ha provocato un ribaltamento. I teatri — luogo e strumento per fare spettacoli — sono diventati il fine; lo scopo è che l’apparato continui a esistere e gli spettacoli sono lo strumento attraverso il quale può avvenire.
Che rapporto c’è tra etica e mercato?
La dimensione di mistero del viaggio non è forse diventata la nevrosi del turismo? Il turista compra, il viaggiatore cerca. E gli artisti come si collocano in questo contesto? E quali? Chi diventa superfluo? Chi scomodo? Chi viene abbandonato a sé stesso? E lo sguardo della critica? La stampa accompagna con presentazioni e interviste, ma la critica, è utile che eventualmente porti una rottura? O è superfluo? Penso a due spettacoli che per me incarnano il teatro: La ragione degli altri, regia di Massimo Castri; Macbeth, regia di Eimuntas Nekrošius. Hanno cambiato il mio sguardo sul mondo così come alcuni libri o film.
Per ragionare sulla mia esperienza trasversale nel teatro il pensiero nasce ancora dalle parole. Mi viene detto che sono un’artista indipendente. Ma che cosa significa? Non faccio teatro di ricerca né nasco in qualche realtà underground. Mi sono diplomata nel
1999 alla Scuola del Piccolo Teatro e per dieci anni ho lavorato solo con Teatri Stabili o grandi produzioni. L’anomalia è che nel 2009 ho deciso di provare a scegliere a cosa dare voce. Non solo essere scelta. L’indipendenza è stata una necessità.Tutti gli spettacoli hanno avuto un passo lento, nessuno ha un costo quantificabile (poche migliaia di euro) e sono cresciuti negli anni insieme a me. Con il senno del poi questa solitudine è stata un bene. Ciò che dura non è utile. Il meccanismo chiede ricambio e la scadenza è sempre più breve.
Nel 2022 ho partecipato come attrice a quattro spettacoli ,uno di un Nazionale. Non hanno avuto futuro. È una tendenza inarrestabile. I monologhi dell’atomica citato da Cordelli nell’articolo sul teatro ha mosso i primi passi nel 2016. Dunque esiste qualche possibilità di non essere sommersi dal meccanismo feroce, di resistere e essere visti. Ma a quale prezzo? Questo spettacolo ha resistito e si è rinnovato attraverso gli occhi del pubblico e della critica, che lo ha via via illuminato, ma sarà ancora possibile permettersi questi atti di libertà, questi viaggi?
Il 2020 è stato uno spartiacque (chi lo nega mente): le maglie sono strette, lo iato tra privilegio e merito disarmante; mi chiedo se sarà mai possibile un dialogo autentico con chi rappresenta le istituzioni, essere felici del proprio percorso artistico, riuscire a vivere del proprio lavoro dignitosamente senza sentirsi mortificati dal sistema come ingenui sognatori per non avere pensato in termini di opportunità di carriera.
Concludo aggrappandomi alle parole di un poeta visionario, Antonio Neiwiller, che nel 1973 scriveva: «Bisogna usare tutti i mezzi per trovare la morale profonda della propria arte e riconciliarsi con il mistero. Che senso ha se solo tu ti salvi. È tempo di convivere con le macerie per trovare un senso. Tra non molto, anche i mediocri lo diranno».
regia di Fausto Cabra, al Teatro Franco Parenti di Milano nella prossima stagione. Nella prima foto dall’alto: una scena dello spettacolo Naturae di Armando Punzo, in scena alla Biennale
Teatro di Venezia 2023 dove ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera. Elena Arvigo (Genova, 1974), attrice e regista teatrale, si occupa di teatro non solo come interprete, ma anche come regista in regime di completa autoproduzione, curando ogni dettaglio che riguarda la messa in scena. Caratteristica del suo teatro è la forte attenzione per le donne. Nella seconda foto dall’alto: una scena del suo spettacolo I monologhi dell’atomica, tratto da Preghiera per Cernobyl di Svetlana Aleksievic eda Nagasaki. Racconti dell’atomica di Kyoko Hayashi. Valeria Raimondi (Verona, 1979) e Enrico Castellani (Verona, 1977) — insieme nella foto di Sara Castiglioni — nel 2005 fondano Babilonia Teatri, formazione che si è distinta per un linguaggio pop, rock, punk. Compongono drammaturgie che sono una sorta di litania scolpita nelle contraddizioni dell’oggi, portate in scena con attitudine ribelle. Hanno indagato diverse angolazioni della vita di provincia, cristallizzandola come microcosmo di un dolore universale, e affrontato i nervi scoperti del nostro tempo. Tra i diversi premi anche il Leone d’argento della Biennale di Venezia nel 2016. Nella terza foto dall’alto: una scena del loro spettacolo Calcinculo del 2018
(foto di Eleonora Cavallo)