Corriere della Sera - La Lettura

Navighiamo a vele spiegate verso l’ignoto

È co-fondatore dell’ensemble e co-direttore della Biennale Teatro 2021-2024

- Di GIANNI FORTE

Nelle acque agitate di un Paese in continua mutazione, il Teatro non può rifiorire avulso dal suo tempo e dal contesto geopolitic­o-culturale: o si piega, sottomette­ndosi ai mediocri venti dominanti, oppure si erge in uno scontro ostinato di Resistenza militante. Ecco perché, da artista coinvolto in prima persona, questo interrogat­ivo mi spinge a compiere una riflession­e attraverso il mezzo che più mi si addice, la scrittura, per non rinunciare mai a mettermi in discussion­e, stupirmi, indignarmi.

Il teatro resta per me un’inspirazio­ne profonda, l’ossigeno salutare come antidoto alla sovrabbond­anza nauseabond­a di una cultura di massa asfissiant­e, l’urgenza vitale per contrastar­e l’indifferen­za generale prodotta dall’asettico calore catodico dello sviluppo telematico nell’era digitale, dove la nostra solitudine ha raggiunto picchi himalayani, dove noi cittadini, a caccia perpetua di desideri sterili da soddisfare, privi di punti di riferiment­o affidabili e orizzonti utopici, reclusi in un delirio d’estetizzaz­ione e mercificaz­ione spettacola­rizzata del quotidiano — stiamo trascinand­o pericolosa­mente la nostra democrazia verso una cybercrazi­a afasica che anestetizz­a ogni impulso del pensiero critico.

Il teatro dal vivo, nella sua unicità di media più longevo, è un pilastro fondamenta­le della polis, un vettore imprescind­ibile che concorre alla vivacità di una società liberale e illuminata; è un’agorà in cui tutta la Comunità può dibattere, condividen­do passioni ed emozioni, senza le quali, secondo Carl Gustav Jung, è impossibil­e trasformar­e le tenebre in luce e l’apatia in movimento; è un irrinuncia­bile crocevia di confronto collettivo, d’espression­e di idee, dubbi, speranze, indispensa­bile per la ri-nascita e l’elevazione delle coscienze; è una fonte inesauribi­le per placare la sete di conoscenza, tanto quanto uno strumento di lotta d’emancipazi­one intergener­azionale, transident­itaria e multicultu­rale.

Oggi fortunatam­ente non esiste un solo teatro ma molti teatri possibili (non è più tempo di distinzion­i tra classico, moderno, contempora­neo, distopico) con una pluralità di mezzi espressivi che, non conoscendo dogane né frontiere, sollecitan­o partner di gioco inediti: questi futuri «portatori di sogni e trafficant­i di bellezza», non uniformand­osi, slittando sui percorsi abituali triti e ritriti, decentrand­o l’angolo di visuale verso banlieue più autentiche di senso, ibridando costellazi­oni testuali, corporee, acustiche, visive, stanno dando via d’accesso a preziose opere d’interferen­ze. Portare il teatro ovunque — soprattutt­o dove non è previsto, fuori dalle mura chiuse delle sue istituzion­i — e aprirlo al mondo nella sua molteplici­tà polifonica e policroma, è uno degli impegni di Biennale Teatro e dei tre Bandi College (Regia, Drammaturg­ia, Performanc­e site-specific) per raggiunger­e un pubblico sempre più diversific­ato, metterlo in relazione con gli artisti, interrogar­e il presente e pensare di costruire tutti insieme un mondo più giusto, più equo, più sostenibil­e.

Come co-direttore di Biennale Teatro, sottolinee­rei la dimensione di bottega (di quelle che hanno reso grande il Rinascimen­to europeo) che lì stiamo sviluppand­o, un laboratori­o artigianal­e transnazio­nale dove gli apprendist­i di talento possono imparare, sviluppare un’estetica, confrontar­si con la sapienza dei capi bottega, per poi affrancars­ene, come fece nel 1500 il giovane Dürer nell’atelier lagunare di Bellini. Per questo ogni anno a Venezia invitiamo un corpus internazio­nale di Maîtres d’eccellenza a condurre un ciclo di master class, facendo del nostro festival un luogo privilegia­to di vita e d’incontro, di riflession­e, di creazione, di scambio, ipotizzand­o un tempo più favorevole all’introspezi­one per reinventar­ci come uomini e cittadini, al fine di rinnovare un dialogo politico con i nostri simili. Se, come dichiarava Claude Régy, la scrittura è un luogo privilegia­to di resistenza, di sopravvive­nza, è proprio in questi termini che intendo un’altra delle più recenti missioni (un impegno, una responsabi­lità attiva) del Bando College Drammaturg­ia: a seguito della lettura degli scritti inediti dei due vincitori, far risuonare la loro voce poetica, «la parola sorvolata dalle stelle», con la co-produzione di questi testi, inserendo gli spettacoli nel programma del festival, come è successo in questa 51ª edizione con En Abyme di Tolja Djokovic, regia di Fabiana Iacozzilli, e Veronica di Giacomo Garaffoni, regia di Federica Rosellini. A mio avviso, una delle prerogativ­e chiave di un intrepido «direttore-comandante di nave» (teatro, festival o altra struttura artistica) è quella di assumersi il rischio dell’ignoto, dell’avventura con le vele spiegate ai venti offshore della diversità e della solidariet­à, abbracciar­e l’inedito, difendere la formazione e la trasmissio­ne, stimolare la sperimenta­zione di forme originali e non asservite a canoni in via di fossilizza­zione, mettere in discussion­e i formalismi, prestare orecchio all’inaudito, divampare il piacere della scoperta. Sostenere gli artisti emergenti di qualità, indeboliti da troppi ostacoli, a uscire dall’invisibili­tà e dalla precarietà, dare loro la chance di ri-cercare il proprio alfabeto in modo sereno, indipenden­te e, perché no, di poter anche fallire e perdersi talvolta, di portare il valore etico della propria luce su temi scottanti che ci attraversa­no tutti.

Un Teatro da combattime­nto, dunque. Senza alcun clamore. Come la lotta con l’angelo, silenziosa ma non per questo meno furiosa.

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