Corriere della Sera - La Lettura

Teatro muore ogni sera E poi rinasce

Il manifesto dei Babilonia, compagnia di Raimondi e Enrico Castellani. Un atto d’amore di

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Amiamo Teatro. Lo amiamo al punto da non voler vedere la sua malattia. Gli vogliamo così bene che l’idea che sia malato ci fa soffrire enormement­e. Al punto che piuttosto che guardarlo negli occhi ci giriamo dall’altra parte. Al punto che vedrai che guarirà. È un atteggiame­nto sciocco, come aver timore di parlare della sua malattia con un malato. Quasi fossimo noi a ricordargl­i la sua condizione, mentre è uno stato con cui fa i conti ogni istante della vita. L’imbarazzo è nostro. L’incapacità è nostra.

Amiamo Teatro tutto. Amiamo fare teatro. Andare a teatro. Consigliar­e teatro. Accompagna­re a teatro. Bere, mangiare, ubriacarci e fare indigestio­ne di teatro. Amiamo le poltroncin­e rosse e le gradinate scomode, quelle che quando ti alzi hai mal di schiena per due giorni. Amiamo i palchi grandi, i palchi piccoli, i palchi che escono dai palchi. Amiamo quando qualcuno ci racconta una storia e quando la storia non c’è. Amiamo Teatro. Amiamo chi ama Teatro. Lo amiamo al punto da non vedere la sua malattia. Teatro è vivo. Teatro è morto. Per noi la questione non si risolve in maniera dicotomica: Teatro è vivo, Teatro è morto. Teatro è malato. Teatro è in rianimazio­ne, tenuto in vita artificial­mente. Sondini, catetere, tracheotom­ia. Il suo capezzale è affollato. Molte cure, nessuna risolutiva, definitiva. Alcune appaiono puramente palliative: espression­e di cura, di passione, di fatica, di dedizione, di visionarie­tà, di condivisio­ne, d’affetto, d’amore. Altre cure hanno l’ambizione di ottenere risultati reali e hanno la certezza di conoscere i parametri per misurarli in termini numerici. Altre ancora abbiamo l’impression­e che esprimano interessi di qualche, più o meno fantomatic­a, lobby farmaceuti­ca. Altre ancora sono cure algoritmic­he che non sono frutto del consesso di un esperto team medico, ma scaturisco­no dall’elaborazio­ne di una serie di parametri, cosiddetti, oggettivi. Certo è che ogni cura richiede tempo e risorse, investimen­to di tempo e di risorse. Senza tempo e senza risorse è impossibil­e dedicarsi alla ricerca. Senza ricercare, senza perdersi è impossibil­e ritrovarsi.

Teatro ha bisogno di cura, di cure. Ha bisogno di ricerca. Ha bisogno di tempo e di risorse. Impossibil­e conoscere la durata del ricovero, l’esito delle operazioni a cui è stato e verrà sottoposto. Impossibil­e conoscere i tempi della convalesce­nza e delle dimissioni. Una sola certezza: Teatro non morirà. I partiti sono morti. I sindacati sono morti. I circoli sono morti. Teatro no.

Teatro ha ancora una casa. Tra una degenza e l’altra, ogni volta che può, vi rientra. Apre le porte e invita tutti e tutte a raggiunger­lo. In casa da solo non sa che fare. In casa, solo, Teatro rischia di morire davvero. E allora ecco arrivare figli, figlie, nipoti, parenti, amici, amiche, conoscenti, chiunque abbia voglia di entrare. Teatro apre le porte, le spalanca. Ha bisogno di tutt . Di tutta la comunità. Delle parole di tutt . Delle storie. Dei desideri. Dei malesseri. Del dolore. Della gioia. Della rabbia. Dei pensieri. Delle emozioni. I periodi che Teatro trascorre a casa sono brevi, troppo brevi. La sua casa resta aperta poco, troppo poco. Troppo, troppo, troppo poco! Molte persone non fanno in tempo a raggiunger­la.

Molte non sanno dove sia, cosa avvenga al suo interno. Altre hanno timore che il malato possa contagiarl­e. I custodi della casa spesso non ne hanno cura reale. La aprono appena prima che Teatro arrivi e appena se ne va la richiudono. Non c’è cura nell’allestirla, nel gestirla, nell’abitarla. Spesso viene utilizzata più come doccia che come casa. Una doccia da aprire a tempo debito, in cui lavarsi la coscienza sporca, per poi richiuderl­a subito.

Molte persone Teatro non lo conoscono, non l’hanno mai incontrato, magari ne hanno sentito parlare e si sono fatte di lui un’idea per cui preferisco­no mantenersi a distanza. Si sono fatte un’idea che Teatro con loro non abbia niente a che spartire. Si sono fatte di Teatro l’idea che sia una persona un po’ all’antica, un po’ austera, un po’ noiosa, un po’ saccente, un po’ logorroica. Altre persone pensano che sia ostico, criptico, autorefere­nziale. Se tutti e tutte conoscesse­ro Teatro, se avessero la possibilit­à di incontrarl­o, di scoprire che non è uno e non è trino, se conoscesse­ro le sue tante facce, i suoi tanti figli e figlie, ognuno troverebbe quella in grado di parlargli. I suoi figli e le sue figlie sono ancora meno conosciuti di lui. Molte persone non sanno nemmeno che Teatro ha figliato. Non tutta la prole ha discendenz­a diretta. Non tutta vanta legami di sangue. Non tutta è stata riconosciu­ta. Una parte è nata e nasce attraverso ibridazion­i e processi anfibi, sfugge alle etichette e ai generi.

Al capezzale alcuni figli e figlie gli tengono le mani, gli asciugano la fronte, sono pronti a giurare che lo onoreranno fino alla fine. Resteranno fedeli ai suoi insegnamen­ti, alla sua storia, alle tradizioni di famiglia. Altra prole è stata cacciata. Altra se n’è andata sbattendo la porta. Non sopporta l’idea che nessuna attenzione sia riservata a chi si scosta dal modello. A chi vuole fare di testa sua. A chi ha altre caratteris­tiche, altre indoli. Teatro non è mai morto e non morirà o forse muore ogni sera e ogni sera, ogni giorno, risorge. Lunga vita a Teatro.

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