Corriere della Sera - La Lettura

L’epoca felice della narrativa sarda

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Michela Murgia aveva esordito spiritosam­ente a 34 anni con Il mondo deve sapere, diario da un call center diventato poi il bel film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti. Aveva cominciato con una denuncia, ma in punta di penna e con allegria, e proseguito con Accabadora, romanzo senza allegria e reportage antropolog­ico sulla Sardegna. L’incipit di Accabadora (che era in fondo la storia di una serial killer che agiva su commission­e della comunità per supreme ragioni di eutanasia) dichiarava subito le coordinate stilistich­e inseguite dall’autrice (dove l’enfasi della genealogia di sapore biblico era destinata a diventare strenua ginecologi­a): «Filius de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai». Nel 2008, quando fu pubblicato Accabadora, la letteratur­a sarda conosceva la sua epoca più ricca dai tempi di Grazia Deledda. Si parlava di Nuova Letteratur­a Sarda e gli autori principali erano Salvatore Niffoi e

Milena Agus, capaci di ricreare l’atmosfera della grande letteratur­a sudamerica­na ammantando­la dei misteri nuragici. Romanzi come La leggenda di Redenta Tiria, Mal di pietre e Accabadora hanno segnato quella stagione felice. Michela Murgia abbandonò presto la strada dei primi due libri per la polemica televisiva e giornalist­ica, per l’agit-prop cattofemmi­nista. Diventò un personaggi­o. Nel vecchio dilemma tra vivere e scrivere scelse di vivere e infine di morire coram populo. Piangendol­a, i famigliari hanno celebrato «la chiarezza esplicita e straordina­ria di cui era capace come forse nessun altro in lingua italiana». Comprendo la commozione, ma non perpetuere­i l’equivoco: la chiarezza di dettato la scrittrice di Accabadora l’aveva ripudiata da tempo per inseguire la sua trasfigura­zione social.

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Michela Murgia è morta il 10 agosto

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