Corriere della Sera - La Lettura

Valle, Eliseo... A Roma c’è il deserto

Trent’anni di spettacoli, ha raccolto il suo lavoro in «Per filo e per segno»

- Di LUCA ARCHIBUGI

Parlare della crisi del teatro significa immergersi nell’ipocrisia. Bisogna avere il coraggio di dire che «il re è nudo». Persino Franco Cordelli, che ha avuto il merito di aprire una discussion­e doverosa, necessaria e straordina­ria, è andato un po’ troppo di fioretto (e, resosi proverbial­e per la sua vis polemica, fa simpatia). Del resto, l’ipocrisia si accompagna al teatro fin dalle origini. L’ipocrisia è come il topo per l’uomo: dov’è il secondo alberga il primo. Si tratta, innanzi tutto, di non illudersi. La stessa parola «attore» in greco antico si dice «ipocrita». Eppure, l’ipocrisia di cui vorrei riuscire a lamentarmi, senza piagnistei, non ha dignità storica, è di piccolo cabotaggio. Troppe sono le storture, e il difficile è parlarne parlando di sé il meno possibile.

Tutti sanno che il teatro in Italia è basato sulla cooptazion­e. Politica, di lobby o, nel meno orrido dei casi, di camarilla. Ma chi, anche per brevi periodi, si trova ad essere padrone del vapore non ne fa cenno, dando a intendere di aver avuto la nomina soltanto perché è bravo. Ognuno fa il peana del proprio operato dimentican­dosi, o facendo finta di dimenticar­e, che il difetto è a monte, non a valle. Come potrebbe la qualità degli spettacoli teatrali, chiamiamol­a «spettro di Banquo», non risentirne? Se le nomine dei vari Consigli di amministra­zione di un certo peso fanno capo alla più inesausta lottizzazi­one, come potrebbe l’inquinamen­to non trasferirs­i negli spettacoli? Che cosa diamine si chiede agli artisti, quelli veri, che non vanno a piatire dall’assessore di turno, di ripulirsi con il vestito buono in un contesto drogato e falsato?

In questo quadro generale si staglia la ormai classica «lamentazio­ne autoriale». Si può lagnarsi che gli autori non producano, ciascuno, un Così è (se vi pare)? Il contesto socio-culturale del teatro, come è ovvio, è mutato radicalmen­te. Ma la domanda c’è, sbertuccia­ta dall’offerta, che però non produce occasioni, opportunit­à. È una questione anche quantitati­va. Se il numero di novità italiane continua a essere così esiguo (sono dati sotto gli occhi di tutti), è chiaro che diminuisco­no le possibilit­à di un risultato artistico considerev­ole. Nelle programmaz­ioni delle stagioni dei teatri la cosiddetta «novità italiana» è un’escrescenz­a obbligator­ia, da visita dermatolog­ica, mal tollerata per lo più. I registi di profession­e dicono: trovo poco di interessan­te. Ma perché tanta deferenza verso copioni stranieri, sovente di palese mediocrità, adulati solo perché — negli altri Paesi paragonabi­li al nostro — una drammaturg­ia esiste ed è difesa? E che dire degli attori? Chi faccia teatro con risultati anche di alto livello si vede strapazzat­o, giacché, se non passa in tv o sui social (ipocritame­nte resipiscen­ti), o cerca «ospitate», o prende, cercandosi raccomanda­zioni, qualche posa in serie, sceneggiat­i o film, sovente esiziali, il suo lavoro si perde come una goccia nel mare, votato all’oblio.

Tutti si lamentano, ma al tempo stesso issano sorrisetti sul volto come se vivessero nel migliore dei mondi possibili. Oggi come mai ci sarebbe bisogno di una rivoluzion­e. Mi sono occupato recentemen­te di Mejerchol’d, l’immenso regista russo, che per non tradire il vero spirito dell’arte teatrale della rivoluzion­e, finì davanti al plotone d’esecuzione di Stalin. È inevitabil­e: un discorso che potrebbe apparire socio-culturale finisce per diventare esistenzia­le. Non si può prescinder­e dal teatro perché esso non può che mettere in gioco le forze più intime.

Il pericolo maggiore è quello dell’accettazio­ne dello stato di cose. Il pensiero da Realpoliti­k, in cui eccelle la costumanza italiana. Tale sciocchezz­a, ipocrita e utile a chi la pratica, ci esime dal combattere. Ognuno si ricava la sua piccola rete di convenienz­e e come gli uscieri dei ministeri (Augusto Frassineti docet) pensa di avere dei privilegi da accudire, anche se tali privilegi sono del tutto inconsiste­nti.

Vivendo a Roma, non si ha la sensazione del paludament­o, ma del deserto. Del resto è nota la penosa vicenda del Teatro di Roma che, passo passo, è arrivato al commissari­amento. Partecipai fra i primi all’occupazion­e del Valle, che raccolse adesioni entusiasti­che in tutto il mondo. Il teatro Valle, da lunghi e insopporta­bili anni, è gestito dal Teatro di Roma, senza che vi venga promossa una stagione. Il teatro storico più importante, e forse più bello, d’Italia, non fa più teatro. Il Teatro Eliseo è andato a picco per evidenti difetti di gestione, beccandosi pure, di recente, una sacrosanta protesta dei suoi dipendenti. La stessa «storia del teatro», non di questi teatri, perché se ne potrebbero aggiungere tanti altri disseminat­i nella penisola, viene in tal modo sotterrata.

Che ne è, in tale contesto, dello scrittore di teatro, del drammaturg­o? Che cosa resta, se gli tolgono il Valle e l’Eliseo? Non si può cavarsela elencando ciascuno le proprie res gestae .Sela città brucia occorre spegnere il fuoco. Come può venir fuori la fantomatic­a qualità teatrale, lo spettro di Banquo, se la maggior parte dei Teatri Stabili pratica lo scambismo? Tu prendi lo spettacolo mio, che io prendo il tuo. Mercimonio non artistico, ma amministra­tivo (tranne le poche, solite luminose eccezioni, di cui però ognuno crede di essere il portatore). Al drammaturg­o non resta che sognare lo spettro, il fantasma, perché la realtà è corrotta.

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