Corriere della Sera - La Lettura
Valle, Eliseo... A Roma c’è il deserto
Trent’anni di spettacoli, ha raccolto il suo lavoro in «Per filo e per segno»
Parlare della crisi del teatro significa immergersi nell’ipocrisia. Bisogna avere il coraggio di dire che «il re è nudo». Persino Franco Cordelli, che ha avuto il merito di aprire una discussione doverosa, necessaria e straordinaria, è andato un po’ troppo di fioretto (e, resosi proverbiale per la sua vis polemica, fa simpatia). Del resto, l’ipocrisia si accompagna al teatro fin dalle origini. L’ipocrisia è come il topo per l’uomo: dov’è il secondo alberga il primo. Si tratta, innanzi tutto, di non illudersi. La stessa parola «attore» in greco antico si dice «ipocrita». Eppure, l’ipocrisia di cui vorrei riuscire a lamentarmi, senza piagnistei, non ha dignità storica, è di piccolo cabotaggio. Troppe sono le storture, e il difficile è parlarne parlando di sé il meno possibile.
Tutti sanno che il teatro in Italia è basato sulla cooptazione. Politica, di lobby o, nel meno orrido dei casi, di camarilla. Ma chi, anche per brevi periodi, si trova ad essere padrone del vapore non ne fa cenno, dando a intendere di aver avuto la nomina soltanto perché è bravo. Ognuno fa il peana del proprio operato dimenticandosi, o facendo finta di dimenticare, che il difetto è a monte, non a valle. Come potrebbe la qualità degli spettacoli teatrali, chiamiamola «spettro di Banquo», non risentirne? Se le nomine dei vari Consigli di amministrazione di un certo peso fanno capo alla più inesausta lottizzazione, come potrebbe l’inquinamento non trasferirsi negli spettacoli? Che cosa diamine si chiede agli artisti, quelli veri, che non vanno a piatire dall’assessore di turno, di ripulirsi con il vestito buono in un contesto drogato e falsato?
In questo quadro generale si staglia la ormai classica «lamentazione autoriale». Si può lagnarsi che gli autori non producano, ciascuno, un Così è (se vi pare)? Il contesto socio-culturale del teatro, come è ovvio, è mutato radicalmente. Ma la domanda c’è, sbertucciata dall’offerta, che però non produce occasioni, opportunità. È una questione anche quantitativa. Se il numero di novità italiane continua a essere così esiguo (sono dati sotto gli occhi di tutti), è chiaro che diminuiscono le possibilità di un risultato artistico considerevole. Nelle programmazioni delle stagioni dei teatri la cosiddetta «novità italiana» è un’escrescenza obbligatoria, da visita dermatologica, mal tollerata per lo più. I registi di professione dicono: trovo poco di interessante. Ma perché tanta deferenza verso copioni stranieri, sovente di palese mediocrità, adulati solo perché — negli altri Paesi paragonabili al nostro — una drammaturgia esiste ed è difesa? E che dire degli attori? Chi faccia teatro con risultati anche di alto livello si vede strapazzato, giacché, se non passa in tv o sui social (ipocritamente resipiscenti), o cerca «ospitate», o prende, cercandosi raccomandazioni, qualche posa in serie, sceneggiati o film, sovente esiziali, il suo lavoro si perde come una goccia nel mare, votato all’oblio.
Tutti si lamentano, ma al tempo stesso issano sorrisetti sul volto come se vivessero nel migliore dei mondi possibili. Oggi come mai ci sarebbe bisogno di una rivoluzione. Mi sono occupato recentemente di Mejerchol’d, l’immenso regista russo, che per non tradire il vero spirito dell’arte teatrale della rivoluzione, finì davanti al plotone d’esecuzione di Stalin. È inevitabile: un discorso che potrebbe apparire socio-culturale finisce per diventare esistenziale. Non si può prescindere dal teatro perché esso non può che mettere in gioco le forze più intime.
Il pericolo maggiore è quello dell’accettazione dello stato di cose. Il pensiero da Realpolitik, in cui eccelle la costumanza italiana. Tale sciocchezza, ipocrita e utile a chi la pratica, ci esime dal combattere. Ognuno si ricava la sua piccola rete di convenienze e come gli uscieri dei ministeri (Augusto Frassineti docet) pensa di avere dei privilegi da accudire, anche se tali privilegi sono del tutto inconsistenti.
Vivendo a Roma, non si ha la sensazione del paludamento, ma del deserto. Del resto è nota la penosa vicenda del Teatro di Roma che, passo passo, è arrivato al commissariamento. Partecipai fra i primi all’occupazione del Valle, che raccolse adesioni entusiastiche in tutto il mondo. Il teatro Valle, da lunghi e insopportabili anni, è gestito dal Teatro di Roma, senza che vi venga promossa una stagione. Il teatro storico più importante, e forse più bello, d’Italia, non fa più teatro. Il Teatro Eliseo è andato a picco per evidenti difetti di gestione, beccandosi pure, di recente, una sacrosanta protesta dei suoi dipendenti. La stessa «storia del teatro», non di questi teatri, perché se ne potrebbero aggiungere tanti altri disseminati nella penisola, viene in tal modo sotterrata.
Che ne è, in tale contesto, dello scrittore di teatro, del drammaturgo? Che cosa resta, se gli tolgono il Valle e l’Eliseo? Non si può cavarsela elencando ciascuno le proprie res gestae .Sela città brucia occorre spegnere il fuoco. Come può venir fuori la fantomatica qualità teatrale, lo spettro di Banquo, se la maggior parte dei Teatri Stabili pratica lo scambismo? Tu prendi lo spettacolo mio, che io prendo il tuo. Mercimonio non artistico, ma amministrativo (tranne le poche, solite luminose eccezioni, di cui però ognuno crede di essere il portatore). Al drammaturgo non resta che sognare lo spettro, il fantasma, perché la realtà è corrotta.