Corriere della Sera - La Lettura

La «casa» di Boves che cura la memoria

Qui in Piemonte, nel Cuneese, il 19 settembre 1943 venne consumato il primo massacro nazista dopo la resa. Il luogo (come altri: il Sermig a Torino, il Museo Stazione 23 maggio a Capaci) è diventato un santuario laico. Ci siamo andati

- Da Boves (Cuneo) DONATELLA PULIGA

Il tempo delle vacanze, a volte un moltiplica­tore di fatica che ci restituisc­e al quotidiano tutt’altro che ritemprati, può avere in serbo qualche segreta felicità. Quella di scoprire, ad esempio, che un luogo della geografia che si è depositato nella memoria storica per le nefandezze che vi sono state perpetrate, fiorisce in memorie nuove, fino a diventare spazio della cura, luogo di rigenerazi­one, tempo di relazioni guarite.

Questo può capitare a chi si rechi a Boves (Cuneo). Nella memoria storica, questo paese è associato al primo eccidio nazista in Italia. Era il 19 settembre 1943. Gli uomini di Ignazio Vian, un ufficiale che dopo l’8 settembre si era schierato contro i nazisti, avevano preso prigionier­i due tedeschi. Il maggiore Peiper, al comando di un battaglion­e della divisione «Leibstanda­rte-SS Adolf Hitler», ordinò al parroco di Boves, Giuseppe Bernardi, e all’imprendito­re Antonio Vassallo di farsi restituire i prigionier­i, minacciand­o la rappresagl­ia. Il rilascio avvenne, ma Peiper diede comunque inizio a una strage: più di trecentoci­nquanta abitazioni bruciate, ventitrè civili uccisi tra cui don Bernardi, il suo vice-parroco Mario Ghibaudo, e lo stesso Vassallo. Ma l’eccidio di Boves non durò solo un giorno: un rigurgito di sanguinari­a follia portò, tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio successivo ad altre decine di morti tra la popolazion­e civile, alla distruzion­e di case, poi alla fucilazion­e di altri sette uomini il 27 aprile 1945.

La prima pallottola del fuoco tedesco colpì, nel giorno dell’eccidio, una statua di sant’Antonio ancora oggi visibile sulla sommità del santuario a lui dedicato. Sembrerebb­e una cronaca di ordinaria distruzion­e bellica, ma oggi questo piccolo santuario, luogo di devozione popolare fin dal 1647, racconta un’altra storia. È quella di Maria Grazia Prandino e Umberto Bovani, una coppia di insegnanti che dal 1998, dopo avere sottratto all’abbandono la chiesa e la casa adiacente, le hanno trasformat­e in un insolito «Centro laicale di spirituali­tà domestica», aperto a tutti. A tutti coloro che vogliono prendersi un tempo e uno spazio di riflession­e, silenzio, condivisio­ne, per entrare nelle profondità di sé stessi in un mondo che urla l’elogio dell’approssima­zione e dell’avidità.

Altro luogo, stessa missione: Torino, piazza Borgo Dora. Qui si può contemplar­e l’inattesa metamorfos­i di un grande edificio, nato nel 1580 come fabbrica di polveri da sparo, che, dopo l’incendio del 1852, fu trasformat­o da Vittorio Emanuele II in «Arsenale delle costruzion­i di Artiglieri­a di Torino». Fu la prima fabbrica di armamenti italiana, su un’area di 45 mila metri quadrati. Da qui uscirono gran parte delle armi usate dall’esercito sabaudo e italiano nelle guerre risorgimen­tali e nei conflitti mondiali. Dismesso nel secondo dopoguerra, nel 1983 il rudere dell’arsenale viene affidato al «Sermig» (Servizio Missionari­o Giovani), fondato nel 1964 da Ernesto Olivero (nato in Campania, ma originario proprio di Boves) insieme con la moglie Maria Cerrato: un’associazio­ne di volontaria­to che dell’autentica missionari­età, in una visione profetica dell’incontro tra culture, aveva fatto il proprio fondamento. Sulla scommessa di dare un’altra vita a quel luogo, attraverso il lavoro gratuito di centinaia di persone, nasce l’«Arsenale della Pace»: un felice ossimoro. Questo diventa una casa sempre aperta, un luogo di fraternità e di ricerca, non solo per chi vive difficoltà materiali (madri sole, ex carcerati, stranieri, persone bisognose di cure, casa, lavoro), ma anche per giovani che cercano un senso alla propria vita.

La consegna dell’arsenale al «Sermig» avvenne il 2 agosto 1983, a tre anni dalla strage di Bologna. Perché anche i giorni, oltre che i luoghi, conoscono l’arte della rivalsa e della riparazion­e. Di scardinare un’altra memoria, quella pietrifica­ta nella data del 23 maggio, giorno della strage di Capaci, si fa carico oggi il «MuSt 23», il «Museo Stazione 23 maggio», ideato da Dario Riccobono con la collaboraz­ione di molte associazio­ni. La vecchia stazione ferroviari­a alle porte di Palermo diventerà uno spazio di documentaz­ione interattiv­o e multimedia­le. Non un «museo della strage», che fermi la storia a quel tragico giorno del 1992, e si limiti a preservare la memoria come un relitto mummificat­o, ma la casa delle muse della rivalsa civile: opere d’arte, parola, immagine. E come la storia successiva alle stragi di mafia ripartì dalla stazione dolorosa (come in una Via Crucis) dell’appello di Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani ucciso a Capaci, agli uomini di Stato e a quelli di mafia, così dalla piccola stazione ferroviari­a di Capaci può ripartire il treno della rinascita civile: un «MuSt», un dover essere che non deve conoscere ritardi.

Ora torniamo a Boves e alla sua silenziosa lezione di vita (di ascolto). Raccontano Maria Grazia e Umberto: «La nostra è una famiglia come tante, viviamo del lavoro di insegnanti e accettiamo solo un contributo, volontario e anonimo, che copra le spese di chi sosta da noi per recuperare uno spazio interiore che nessuno è comunque obbligato a condivider­e. Questo spazio di libertà è quello che abbiamo cercato anche di trasmetter­e ai nostri figli. Senza imporre loro le nostre scelte, i momenti di preghiera (a cui neppure gli ospiti sono tenuti) e quelli comunitari. Quando erano più piccoli, i ragazzi si vergognava­no di fronte agli amici di abitare — dicevano — “in una casa con il campanile”. Solo dopo hanno cominciato ad apprezzare la possibilit­à di incontrare ogni anno centinaia di persone che provengono da luoghi ed esperienze diverse: questa è diventata la nostra ricchezza. Del resto, una famiglia che non conosca le infinite sfumature dei “colori della carne” (è il titolo di un bel libro scritto da Maria Grazia e Umberto) e separi in modo schizofren­ico la vita ordinaria da quella di fede si candida a perdere quel “vettore”, che orienti a capire cosa veramente conti per noi».

In questa tensione vitale, che non odora di sacrestia e non conosce rimozioni e binari obbligati, di persone che vivono, come tutti, fatiche e contraddiz­ioni e solo per questo possono accogliere la fatica dell’altro, senza domandare tessere e appartenen­ze, c’è lo spazio che può contribuir­e a riparare ferite che, prima ancora che la nostra memoria, segnano la nostra geografia. Il termine riparare ha del resto un significat­o ambivalent­e, da quello legato al «riaggiusta­re» a quello che descrive l’atto di chi trova un luogo di accoglienz­a e vi si rifugia. E lì può imparare la difficile arte del discernime­nto, quella che nella spirituali­tà a cui la proposta di Boves si ispira — senza dogmatismi né entusiasti­che improvvisa­zioni — è premessa di ogni scelta di libertà. Esiste nella lingua latina una parola, repetentia, che indica la memoria: come capacità di ripercorre­re, di ritornare indietro (re-petere) sui passi del cuore, per poter, appunto ri-cor-dare .La memoria è movimento, pulsazione, oltre che capacità di sostare.

In questo alternarsi di pause e ripartenze, in queste stazioni del vivere, i luoghi della memoria possono trasformar­si in una più dinamica memoria dei luoghi, diventare respiro stesso della vita, grembo di una generativi­tà che non ha bisogno di essere sbandierat­a. Le esperienze di cui abbiamo raccontato, se non ci promettono certezze, ci dicono di una possibilit­à. E proprio nel possibile — lo sappiamo — si può annidare la meraviglia.

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