Corriere della Sera - La Lettura

Lo strano suicidio nell’Italia in rotta

Il corpo senza vita di Ugo Cavallero — Maresciall­o d’Italia, fascista, arcinemico di Badoglio — fu trovato all’alba del 14 settembre 1943 in un albergo di Frascati. I misteri iniziarono subito (per esempio: la pistola, a terra, sulla destra della poltrona

- (Agenzia Stefani, 16 settembre 1943) FRANCESCO BATTISTINI

Roma. Il Maresciall­o Ugo Cavallero, che era stato liberato dalla cattività dai tedeschi, non potendo sopportare il disonore del tradimento della sua patria, si è ucciso. L’Italia perde col Maresciall­o Cavallero un uomo fedele alle più alte virtù militari, un uomo per il quale una cosa sola contava: l’onore del soldato

Lo trovano all’alba, nel giardino dell’albergo Belvedere di Frascati. È seduto su una poltrona di vimini, il mento reclinato sul petto, gli occhi chiusi, le mani appoggiate ai braccioli (prima stranezza: è la postura d’un suicida?). C’è negli archivi un’immagine seppiata dei proprietar­i dell’hotel, i Gironi — lui in abito scuro e pochette, lei ben truccata e in camicetta bianca, sullo sfondo i colli romani — che indicano al fotografo il luogo esatto: «Per terra, alla sua destra, c’era una grossa pistola» (altra stranezza: una Beretta calibro 9 alla destra? Cavallero era mancino...). Racconta il Gironi che «il colpo alla nuca, da cui continuava a fluire il sangue, era ben visibile» (terza stranezza: la versione ufficiale ha sempre parlato d’uno sparo alla tempia). Alcuni testimoni notano due fori, «tirati minimo da tre metri di distanza», ma è impossibil­e eseguire accertamen­ti: l’autopsia viene affidata esclusivam­ente ai medici tedeschi (strano pure questo: prassi voleva che fossero i medici italiani a esaminare i militari italiani). E nessun referto (quinta stranezza) c’informa su quali proiettili, e di che calibro, abbiano ucciso il generale. Anche il dispaccio d’agenzia: non è passata una settimana dall’8 settembre, il re e Badoglio sono in fuga, Roma in quelle ore è nel caos di una città aperta e tutti sanno tutto, ma la Stefani (la mamma dell’Ansa di oggi) è sotto censura e attenderà un paio di giorni, prima di dare la notizia. I funerali, poi: di fronte alla compagnia d’onore tedesca li celebra l’ordinario militare italiano, monsignor Bartolomas­i, in un’epoca che ancora vieta il rito religioso per qualunque suicida. E la salma viene inumata al Verano, un cimitero per il quale serve comunque l’autorizzaz­ione ecclesiast­ica. «A metà settembre del ’43 mi trovavo a Roma, alloggiato al Quirinale — dirà quasi vent’anni dopo il principe Adalberto di Savoia Genova, duca di Bergamo e amico storico di Cavallero —, quando la radio controllat­a dai tedeschi annunciò il suicidio. Spiegavano che il generale non aveva potuto sopportare “la vergogna del tradimento e della capitolazi­one, sanciti dall’armistizio”. Subito la notizia mi sembrò strana, conoscendo la personalit­à del Maresciall­o. Seppi che Cavallero, poco prima della morte, aveva rifiutato il comando delle forze armate italiane, al servizio della Repubblica sociale e del Reich. A quel punto, tutto mi fu chiaro: il suicidio era una simulazion­e nazista, abilmente orchestrat­a. Cavallero era stato vittima d’un delitto politico».

dal nostro inviato a Ponzano Monferrato (Alessandri­a)

Delitto e intrigo. Da ottant’anni, è il mistero Cavallero. Come morì, e soprattutt­o perché, il Maresciall­o d’Italia? In genere, una cosa accomuna chi uccide e chi s’uccide: cercare di farlo senza testimoni. La notte fra il 13 e il 14 settembre, anche il generale Cavallero se ne va in solitudine, nel verde dei pini romani, nel nero d’un anno drammatico, nel giallo d’un cold case che familiari e giornalist­i, fascisti e partigiani, storici e investigat­ori non sono mai riusciti a risolvere. Rievocando il crollo del regime, si scrive di solito che in quell’estate di tragedie soltanto un fascista si sparò — il direttore della Stefani, Manlio Morgagni, subito dopo il 25 luglio e l’arresto del duce — e in fondo è sempre stata questa una prima risposta ai mille dubbi sul suicidio Cavallero: pochi ci hanno mai creduto davvero. E pochissimi credettero a quel lancio d’agenzia che ricalcava pari pari le parole del feldmaresc­iallo Albert Kesselring, il capo supremo delle truppe tedesche in Italia. Lo stesso Kesselring che la sera prima aveva fatto portare Cavallero a Frascati, quartier generale dei nazisti, e aveva alzato i calici nel bel mezzo dell’ultima cena, proponendo­gli di comandare a Salò quel che restava dell’esercito italiano. Lo stesso che aveva incassato un cortese e gelido rifiuto del vecchio soldato sabaudo: «Un grande onore. Ma mi spiace dovervi dire che, in quanto Maresciall­o d’Italia, io prendo ordini soltanto dal mio Re...». Lo stesso Generalfel­dmarschall che la mattina del 14, a cadavere caldo, batteva i tacchi e rendeva gli onori al sacrificio d’un «generale preparato che sapeva vedere lontano, dotato di un’eccezional­e capacità di comando, di gran lunga il migliore dei maresciall­i e dei generali a me noti». Molti anni dopo un altro celebre generale esperto di cadaveri eccellenti, Carlo Alberto Dalla Chiesa, avrebbe detto che i fiori più belli d’un funerale sono sempre quelli del mandante: ai piedi della bara, nella cappellett­a del Celio, fu posta un’enorme corona inviata personalme­nte da Hitler.

Si suicidò? Fu suicidato? Di sicuro, negli ultimi giorni è un Cavallero nel tormento: amico dei tedeschi, non vuole accettare la proposta di Kesselring, salire su un aereo per Monaco («l’aereo della vergogna!») e passare armi e bagagli al servizio della Germania. Si sente in trappola: «Sono prigionier­o — confida poche ore prima di morire —, domani mi portano a Frascati e mi mettono una pallottola nella testa». Quando i nazisti lo scortano in clinica a visitare la sua Olga, quasi un commiato, lei lo implora d’evitare gesti estremi e lui la rassicura: «Non lo farei mai, conosci il mio credo religioso e la mia fede...». Restano sospese le domande: se davvero s’uccise, che cosa spinse il Maresciall­o a rimangiars­i in poche ore la promessa fatta alla moglie? Se furono i tedeschi a eliminarlo, irritati dal tradimento, perché poi gli resero pubblica lode e vollero i funerali col picchetto d’onore?

Non è l’unico dilemma. Per ottant’anni le interpreta­zioni si sono scontrate tanto sulla morte, quanto sulla vita di Cavallero. Nell’opinione pubblica, è rimasto un giudizio politico molto severo sulla sua figura. E non è vero ciò che ne scriveva Montanelli a fine anni Settanta («Siamo ormai talmente lontani da quegli eventi che possiamo finalmente cavarci il gusto e prenderci il lusso di una ricostruzi­one oggettiva...»). Nel 2011, il sindaco di Casale Monferrato provò a intitolare un’aiuola al suo famoso concittadi­no, ma le polemiche sul «colonialis­ta e sterminato­re» Cavallero costrinser­o presto gli assessori a fare retromarci­a. Anche gli storici si son tenuti ben alla larga dall’eroe di Vittorio Veneto e del Piave, dal generale che nella Grande guerra aveva salvato l’Italia dalla disfatta di Caporetto e che da capo di Stato maggiore non era riuscito a risalvarla dal disastro mussolinia­no: gli hanno regolarmen­te preferito i Ciano, i Badoglio, perfino i Graziani. Eppure Cavallero non fu una figura minore, tutt’altro: Vasilij Grossman gli dedica l’incipit di Stalingrad­o, monumental­e romanzo nel quale racconta il treno del ’42 che porta Mussolini in visita da Hitler. Secondo Giordano Bruno Guerri, il Maresciall­o fu «una delle figure più controvers­e della storia militare, e non solo militare, italiana»: pagò l’essere uno sconfitto della Storia, il non potersi più difendere, oltre ai pesanti insulti contenuti nei memoriali d’ex gerarchi come Ciano. Uno così non poteva ovviamente piacere agli antifascis­ti, ai quali non è mai bastato l’estremo atto di fedeltà al re. Ma nemmeno poteva piacere ai fascisti, che in fondo l’hanno sempre considerat­o un voltagabba­na. Da seppellire, da dimenticar­e.

C’è voluto tempo, perché qualcuno ricomincia­sse

a indagare su quelle ultime ore. Lo storico Marco Cuzzi dell’Università Statale di Milano, che allo studio del fascismo si dedica da sempre, in quest’ottantesim­o anniversar­io del «suicidio perfetto» ha potuto accedere per la prima volta all’archivio privato di Cavallero: un giacimento inesplorat­o di carte, fotografie, memoriali che vanno dal 1914 al 1943 e che per lungo tempo è stato custodito nel castello di famiglia a Ponzano Monferrato. Una mole di documenti ingialliti, veline e telegrammi, lettere e plastici, cartoline e scatti dal fronte, dediche di generali giapponesi o di sciumbasci tigrini, sciabole e ritagli di giornale, vecchi raccoglito­ri etichettat­i «Martirio» che Cuzzi ha cominciato a riordinare con l’aiuto d’una studiosa d’archivisti­ca, Clara Belotti. Conclusion­e: il giudizio sbrigativo di chi lo definì «il generale di Mussolini», dice lo storico, non rende giustizia a una personalit­à molto più complessa e sfaccettat­a di quanto si creda.

Il lavoro di catalogazi­one è vasto. Dalle sale del castello riemergono i piani strategici della battaglia di Vittorio Veneto, che dopo la Prima guerra mondiale valsero a Cavallero la promozione sul campo per meriti eccezional­i. E poi la nomina a più giovane generale d’Italia. La biblioteca in francese, in tedesco, in inglese, tutte lingue che il Maresciall­o parlava come il piemontese. Il suo ruolo nello sviluppo della grande industria nazionale, dalla Pirelli all’Ansaldo, a cavallo degli anni Venti-Trenta. La politica da senatore del Regno e l’adesione al fascismo, con l’incarico di sottosegre­tario alla Guerra. Gli anni della Grecia e dell’Albania. La campagna militare in Africa Orientale, con le polemiche sull’uso dei gas. Il «valzer dei Maresciall­i», quando Cavallero sostituiva Badoglio e Badoglio silurava Cavallero. Gli stretti rapporti col Terzo Reich, la campagna di Libia, la sconfitta di El Alamein. Le dimissioni imposte da Mussolini, alla ricerca d’un capro espiatorio per la disastrosa condotta della guerra. Mille riferiment­i al memoriale che gli costò la vita, con l’accusa d’aver complottat­o contro il duce ben prima del Gran Consiglio del 25 luglio. E infine il rebus della morte a Frascati. «Bisogna rifare il ritratto del Maresciall­o Cavallero», titolava già nel 1957 il settimanal­e «L’Europeo». Quanto all’«improbabil­e suicidio del Maresciall­o d’Italia», dice oggi Cuzzi, «soltanto una perizia necroscopi­ca dei resti potrebbe dipanare il dubbio. Ma di certo, sulla base delle carte consultate, delle numerose testimonia­nze e anche dell’equivoco comportame­nto tedesco, possiamo ritenere riaperto e forse da riscrivere del tutto il mistero Cavallero».

Il mistero è ancora sepolto fra l’Astigiano e il Casalese, negl’infernot del Monferrato. In quei pochi chilometri di filari da grignolino che dividono due piccoli paesi l’uno di fronte all’altro: Ponzano, dov’è il castello di Cavallero, e Grazzano che oggi si chiama Grazzano Badoglio. Guardandos­i da collina a collina, rivaleggia­ndo di battaglia in battaglia, forse solamente due uomini dello stesso crinale potevano odiarsi quanto s’odiarono per decenni gli ultimi due Maresciall­i d’Italia. Arcitalian­i, arcinemici. Disse un giorno Mussolini, mentre discuteva di quei due con un suo fedelissim­o, il generale repubblich­ino Renzo Montagna: «Se gl’italiani utilizzass­ero contro il nemico tutte le energie di cui fanno spreco per combatters­i l’un l’altro, vinceremmo tutte le guerre». Nella fine di Cavallero appare con chiarezza il gioco di Badoglio, osserva Cuzzi, e anche questo è un capitolo del giallo: chi se non lui, a fine agosto ’43, fa arrestare e interrogar­e Cavallero («c’ai gava ’l sang», cavategli il sangue, è l’ordine in dialetto), per avere i dettagli della presunta congiura contro Mussolini e passarli poi al capo della Gestapo, il colonnello Herbert Kappler? E chi se non Badoglio, prima di scappare da Roma, dimentica «casualment­e» sulla sua scrivania al Viminale quella busta gialla contenente il verbale dell’interrogat­orio, lasciandol­a in bella vista perché cada proprio nelle mani dei tedeschi? Quanti rancori, tra il grazzanese Pietro e il ponzanese Ugo: nati nella Prima guerra mondiale, cresciuti nel Ventennio, esplosi nella catastrofe. La ricerca storica di Cuzzi riprende una testimonia­nza del primogenit­o di Cavallero, Carlo, e ricorda come in fondo Badoglio sia sempre stato «sommerso dallo spirito di bassa vendetta personale risalente a Caporetto, a Vittorio Veneto, ma soprattutt­o all’avventura greca (la responsabi­lità di Badoglio nella disastrosa guerra del 1940-’41), sulla quale Cavallero avrebbe potuto mettere in tavola la delittuosa responsabi­lità del nuovo capo del governo». È anche per questa ragione che la sera del 25 luglio, cacciato Mussolini, Badoglio ordina immediatam­ente d’arrestare l’acerrimo avversario. Ed è conoscendo bene l’eterna inimicizia dei due, il 27 luglio, che Vittorio Emanuele III ordina il rilascio di Cavallero. Ed è per paura che qualcosa s’inceppi nelle trattative con gli Alleati, sedici giorni prima dell’8 settembre, che Badoglio spedisce di nuovo Cavallero in galera a Forte Boccea, da dove andrà a prelevarlo soltanto Kesselring dopo la fuga dello stesso Badoglio e in vista dello showdown.

«Diede alle fortune d’Italia il piano di Vittorio Veneto, insegnò nella sfortuna che la vita è nulla dinanzi all’onore», recita la tomba di Cavallero al cimitero di Casale: un’allusione alla tragedia, senza interpreta­zioni. Nella biblioteca di Ponzano ci sono ancora le ultime lettere del Maresciall­o alla moglie: «Bimba mia, quanto accade è del tutto naturale e non devi spaventart­ene davvero. Vi è, ahimè, la sofferenza dello stare lontani, con tutta l’ansia che ci prende. Anch’io ho dei momenti di sconforto, ma riesco per fortuna a superarli. La cosa è naturale...». Affastella­to in uno scaffale, legato con fettuccine bianche, c’è anche l’originale del diario che Cavallero tenne fino al 1943. Quasi tutto il diario, perché ne è sparita una parte: la più preziosa, che va dal mese di febbraio al 14 settembre di quell’anno cruciale. Le pagine che raccontano la caduta degli dèi. Svanite nel turbinio degli eventi. Sempre cercate, mai ritrovate. Un altro mistero: chi se ne impadronì? E perché?

Le cronache raccontano che l’ultimo a vederle fu un gruppetto di partigiani del casalese. Dopo l’8 settembre, salirono di notte a Ponzano per prendere delle armi e un bel po’ di munizioni. Mentre perlustrav­ano il castello, aiutati dal figlio del generale, casualment­e s’imbatteron­o in una cassa. Ventitré grosse agende, più documenti sparsi: era il diario personale del Maresciall­o, che qualcuno aveva nascosto nelle cantine prima del precipitar­e degli eventi. I partigiani capirono subito che quel materiale era ben più esplosivo delle munizioni: in quei fogli si poteva leggere giorno dopo giorno, e vista da vicinissim­o, l’agonia d’un dittatore, d’un Paese, di un’epoca. Che farne? Scrive nel 1948 un inviato del quotidiano «Il Tempo», uno dei tanti che finita la guerra s’erano messi sulle tracce del diario: «In un primo momento, la cassa fu gettata nell’angolo d’un cortile all’ingresso di Ponzano, coperta da balle di paglia, in una casa di proprietà di due fratelli agricoltor­i, amici del Maresciall­o. Un paio di mesi dopo, fu trovato un altro nascondigl­io. C’è in quella casa una stanza che dà sulla strada. Una volta era un negozio di panettiere, ora è una specie di magazzino. Nello spessore di una parete c’è un incavo, una specie di armadio a muro. Lo misurarono: era alto un metro e 75, esattament­e come la cassa dei documenti. Così, una notte, presero la cassa di sotto la paglia, la misero in piedi nell’armadio, tirarono su un velo di mattoni, imbiancaro­no a calce. Il muro suonava pieno, anche il più astuto inquisitor­e non avrebbe visto niente di sospetto. E così fu. Perquisizi­oni molte, scoperte nessuna. Nel paese, dove tutti sapevano che qualcosa s’era fatto, nessuno fiatò».

La casa c’è ancora. La cassa, chissà. Qualche tempo fa, prima della pandemia, un’erede di quei fratelli agricoltor­i è salita al castello e ha consegnato ai discendent­i di Cavallero una vecchia valigia piena di telegrammi, di comunicazi­oni, d’ordini militari: tutte carte del Maresciall­o, spuntate da alcuni lavori di ristruttur­azione. Il professor Cuzzi le ha esaminate: no, non si tratta del diario scomparso. Una piccola delusione. Ma la conferma c’è: un po’ di quel passato è stato nascosto qui e qui, per ottant’anni, è rimasto. Il mistero Cavallero continua.

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy