Corriere della Sera - La Lettura

Le urla del mondo nel bosco si sentono di più...

Le nuove poesie di che vive in solitudine

- Da Armeno (Novara) MARCO VENTURA In che senso?

Esce per Einaudi una nuova raccolta di versi di Chandra Candiani, che sarà ospite al Festivalet­teratura di Mantova venerdì 8. È intitolata Pane del bosco. 2020-2023. Traduttric­e, poetessa (tre precedenti raccolte sono apparse in Collezione di poesia, la collana «bianca» in cui esce ora Pane del bosco), Candiani è anche autrice di saggi, di cui due sulla meditazion­e pubblicati nelle Vele Einaudi. Ha settant’anni. È nata a Milano dove ha vissuto a lungo. È ormai nota a un largo pubblico che di opera in opera si è affezionat­o alla profondità e alla leggerezza, alla spirituali­tà e alla materialit­à, alle parole e ai pensieri della scrittrice. Oltre che esperta di meditazion­e, Chandra Candiani è anche studiosa dei testi e delle pratiche del buddhismo. «La Lettura» la incontra nei pressi del lago d’Orta, non lontano dal bosco protagonis­ta della raccolta. L’intervista ha poi luogo per iscritto, a distanza, nel corso del mese di agosto.

Il giorno in cui si conclude l’intervista il bosco di Chandra Candiani è investito da un temporale. I tuoni sono fortissimi. Il torrente sembra trasformar­si in fiume. Cadono cinque alberi.

In quale bosco ci portano le poesie di questa raccolta?

«In realtà, nel libro, ci sono due boschi in quattro stagioni. Il primo è il bosco rassicuran­te di un piccolo paese. Ci abitano gli asini, qualche volpe, qualche cinghiale, tante api e tanti uccelli. Alberi amichevoli come il ciliegio selvatico e le querce rosse. Ho vissuto nei suoi pressi per tre anni. È un bosco di transito. Il secondo invece è il bosco dell’alpeggio su cui da circa dieci mesi vivo. È un bosco che conosce poco gli umani, un bosco asciutto, di terra rossa e ocra, con tante pietre tempestate di mica che brillano, tante felci selvagge, rovi, erica e ginestre. Un bosco di castagni, faggi, aceri, ontani e betulle. Questo è il bosco di cui scrivo “questo bosco è destino”. È il bosco dell’abbandono della città e della fine dell’idealizzaz­ione della natura».

«Qui gli animali scappano, i caprioli abbaiano forte per dirci che gli intrusi siamo noi. I cinghiali scavano ovunque. I tassi lasciano i loro escrementi sulla porta di casa: mia! Gli alberi sono anziani e taciturni. Il picchio verde sghignazza. Niente è garantito, acqua, luce, calore chiedono manutenzio­ne, lavoro, pazienza. È il bosco della vita nuda. Anche la mente si spoglia, si perde la storia personale, si sentono forte le urla del mondo che anziché essere lontano, da questa periferia dell’essere, si avverte più intimo e insieme estraneo. È il bosco della caduta delle illusioni e dell’entrata in una comunità di alberi dove l’umano ha una misura molto diversa, minuscola, relativa. Qui si familiariz­za con la solitudine e anche con la morte».

Si è portata delle domande nel bosco? Ha qualcosa da chiedere agli alberi?

«Avevo tante domande per gli alberi, ma appena arrivata era dicembre, gli alberi sonnecchia­vano tutti spogli, sembravano disegni giapponesi a china su un velo spesso di nebbia. Ho fatto giusto in tempo a presentarm­i a molti di loro e a promettere custodia. Ma le domande... non sembravano ascoltare. C’era tanto silenzio. Poi, finalmente, un grande faggio che nasconde in sé tante facce di elefanti, mi ha bisbigliat­o: “Lascia fare a noi, ti trasformer­emo in una bambina magica”. Io però ho continuato a chiedere disperatam­ente che la poesia non mi abbandonas­se, perché mi sembrava di aver lasciato tutto in pianura e di essere una vecchina perduta, altro che bambina magica».

dialogo con gli elementi, riflession­e, meditazion­e non sono gesti solitari ma azioni politiche

E la poesia non l’ha abbandonat­a. Un regalo della vecchiaia? O di una nuova infanzia?

«Per me la poesia è una visita sempre inaspettat­a, non ci sono garanzie né propiziazi­oni e ogni volta c’è la paura che non ritorni, non solo la scrittura, ma quella dimensione di silenzio sveglio e attento che porta alla fine alla scrittura. Rainer Maria Rilke, che è il mio poeta più amato, diceva che non sempre la “solitudine lanciatric­e” (che modo preciso di definire la poesia) ti getta e così la prova più grande del poeta è l’attesa, fermo in attesa. La poesia viene sicurament­e, per me, dall’infanzia, dall’entusiasmo, dalla disponibil­ità profetica, dai soprassalt­i di meraviglia dell’in

fanzia. Ma lo scrivere, il passo successivo, è rigore e disciplina e assomiglia sì alla vecchiaia, a quella specie di tergicrist­allo mentale che uso ogni mattina per non farmi abbattere dagli eventi, per restare limpida».

Cosa fa il bosco alla vecchiaia e all’infanzia?

«Chissà. Mi sembra che lo spirito saltabecca­nte dell’infanzia sia nutrito dal ruscello, dalle follie vegetali e animali. E la vecchiaia è ovunque, nei rami contorti, negli alberi stanchi, vecchi, resistenti, in certe malinconie collettive che la parola bosco racchiude ma sono di ogni animale, di molti uccelli quando si avvicina la sera o il temporale, quando si spezza un ramo o un fulmine brucia un albero. C’è una coralità in cui vecchiaia e morte sono vissute insieme e fanno parte dell’orchestra. E c’è la violenza, gli animali che si feriscono a vicenda e si sente come chi invecchia si ritira e tace. Così l’infanzia resta a cantare nel sangue, nel richiamo del selvatico e la vecchiaia è più ovvia, un fatto di natura, non un fallimento. Spesso gli alberi più vecchi hanno un’aria molto maestosa, altri fragile, ma tutti hanno una loro postura di inchino a un volere più grande».

Lei scrive: «Nessuna guerra è lontana». Dunque il bosco non è un rifugio dalla violenza dell’uomo?

«Da qui, da questo posto lontano e solitario, le urla del mondo si sentono di più. Ascoltare le notizie ha un impatto fortissimo sul cuore messo a nudo da una vita sempliciss­ima e solitaria. La differenza è che si vede da un’altra prospettiv­a, si sente che è possibile una differenza, ma soprattutt­o si comprende che la brama e l’odio fanno parte di tutti noi e sono la causa di ogni conflitto e sopruso. Ignorarli è una pessima scelta, vederli in sé ed estirparli con tenerezza e gradualità ridà fiducia in una possibilit­à diversa per l’essere umano. La corsa al costante raggiungim­ento di qualcosa che si respira ovunque annebbia. Ma ci si può fermare e dirsi: “Basta così”».

Le sue poesie nel bosco sono piene di parole sulle parole. Ci si può fermare anche con le parole?

«Per me riflettere sulle parole è parte essenziale della mia poetica o sempliceme­nte della mia vita. Fermarsi con le parole non significa necessaria­mente tacere, ma lasciare che le parole arrivino, il più possibile direttamen­te, dalla loro fonte, il silenzio. Per me un’intenzione fondamenta­le è avere parole disarmate, che non significa affatto esangui, ma orientate a non ferire. Parole che risveglian­o possono fare momentanea­mente un po’ male, ma non feriscono. Ci vuole disciplina della parola e il bosco insegna a stare con gli esseri muti e a scoprirne il linguaggio radicale, o il silenzio articolato in foglie, radici, rami. Le parole le aspetto e le curo e quell’attesa è difficile ma anche rinnovante, ci fa balbuzient­i e infanti e dopo torna l’avventura del “parlare-a” e non del generico dirsi».

Come è possibile «parlare-a» lettrici e lettori così lontani dal suo bosco?

«Il bosco è molto vicino al pianeta, vive nell’emergenza ambientale, qui non puoi non vedere gli alberi assetati durante la siccità, i fiori che nascono stanchi e gli alberi caduti durante i temporali come soldati abbattuti. Qui senti la responsabi­lità e l’impotenza come ovunque. L’essenziale del vivere e del morire è dappertutt­o, in città, nel bosco, nel deserto, in paese. E la vita interiore è coltivabil­e o ignorabile ovunque e per vita interiore intendo anche sentire il mondo e rispondere. La solitudine e il silenzio sono sempre stati dei ponti solidissim­i per incontrare quello che conta e dunque anche il cuore degli altri. L’invio silenzioso del bene, il dialogo con gli elementi, la riflession­e, la meditazion­e non sono solo gesti solitari: sono azioni politiche».

Che cos’è il «pane del bosco» che dà il titolo alla raccolta? Ha a che vedere con questi «gesti solitari» che sono «azioni politiche»?

«Il “pane del bosco” è il nutrimento che il bosco mi dà ogni giorno. La comunità degli alberi mi ha accolto. Non mi sono mai sentita a mio agio in altre comunità, dove devi sempre dimostrare qualcosa. Qui la solitudine è corale e la magia quotidiana. La sfida pure. E l’ingenuità è di casa. Sì, qui parlare alla pioggia, chiamarla vagando per i boschi, o chiederle di placarsi in altri luoghi dove la siccità si è alternata con le alluvioni, ha senso. Qui mi telefonano per dirmi: “Manderesti il bene a mio figlio?”, o a mia madre o a mio nonno. Ho una lista nel cuore e quando medito mi avvicino in punta di piedi a ognuno e gli faccio compagnia. Niente di salvifico, solo la compagnia della compassion­e. Un’amica li ha chiamati “pensieri pregati”. Io penso a un minuscolo postino con una borsa piena di nomi senza indirizzo. Consegna tutto alla vita grande, all’aria, allo spazio che ci separa e ci accomuna».

A proposito di «pensieri pregati»: il bosco prega? «Non saprei se prega, non vorrei dire cose riservate. Certe volte vado da un albero e gli dico: “Scusami, ti ho nominato in un libro”. O da una foglia: “Scusami ti ho messo in una poesia”. Forse il bosco “è” preghiera: gli alberi si alzano verso il cielo come abitati da un fuoco interno che li spinge in su. Le foglie cadono puntualiss­ime e puntualiss­imi arrivano i fiori. C’è un ritmo che non è solo obbedienza ma anche fiducia, un sapere che il flusso è più del restare e l’individuo è tesserina di un immisurabi­le mosaico. Ogni creatura ha un suo affidament­o peculiare. Lascia che la vita faccia e disfi. Forse anche questo è uno sguardo antropocen­trico, ma stando nel bosco si sente un silenzio che è sapienza e quando si soffre si sente una compassion­e che è interrelaz­ione e se si chiede c’è risposta».

Definirebb­e dunque il bosco come sacro?

«Non ho prove, non ho saperi. Se sacro è quello che scivola via dal mondo degli affari, delle ragioni, delle prepotenze ben vestite, delle tirannie, se è nuda esistenza all’aperto, senza lamento, sì il bosco è sacro, ogni bosco lo è, perché c’è posto per tutti e tutti sono bosco, è un nome plurale. Non a caso nei boschi si rifugiano da sempre gli indesidera­ti».

Verso la fine della raccolta lei si riconosce «sopravviss­uta all’abbandono della città» e si dichiara «un’altra, arborea, transitori­a». Cosa l’attende ora, oltre l’ultima poesia della raccolta?

«Non lo so. Spero di essere all’altezza della vecchiaia, di saper stare sola e silenziosa nel transitare, di sapermi abbandonar­e ogni giorno e ogni notte alla sconosciut­ezza. E di non perdere mai la magia dell’umorismo tenero».

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