Corriere della Sera - La Lettura

...E abbiamo perso l’incanto di fronte alla vita

Il comico apre con i suoi racconti non comici

- Di MATTEO TREVISANI

Le cose perdute vengono ritrovate, i morti sono presenti almeno quanto i vivi e tutti i personaggi devono fare i conti con il fatto, all’improvviso sconcertan­te, di esistere: la raccolta di racconti Un allegro sconcerto (La nave di Teseo +), quarta opera di Giacomo Poretti, è un florilegio di cortocircu­iti letterari e spirituali, spesso malinconic­i o dall’ironia lieve, sempre immaginifi­ci. I testi affrontano le grandi domande dell’umanità, il mistero della morte, l’esistenza di Dio, e dialogano con le sacre scritture, giocando con il surreale e l’invisibile. Giacomo Poretti — attore, autore, membro del famoso trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo — inaugura con questo libro il Festivalet­teratura.

La prima parte della raccolta si intitola «Racconti del perduto incanto»...

«I racconti partono da un’esigenza fisica di credere all’incredibil­e. Mi sembra che si sia perso, forse irrimediab­ilmente, l’incanto di fronte alla vita. È l’incanto del sacro, l’incanto che abbiamo davanti alle domande che non ci facciamo più, il peccato di dover credere solo a quello che si vede. È una cosa che mi stupisce. Perché non è più possibile credere che sbucciando un’arancia ci si possa trovare dentro la Divina Commedia?».

È il reincantam­ento del mondo quello che cerca?

«È la dimensione ulteriore nel presente, l’invisibile, le cose strane e balzane che si manifestan­o, i morti che ritornano nella vita di tutti».

La morte e la fede ritrovata sono i due assi del libro.

«L’allegro sconcerto del titolo è proprio la morte. Mi rendo conto che è più difficile parlarne che scriverne, ma ho sempre avuto l’esigenza di pormi queste domande, fin da bambino. Non ho mai pensato di avere le capacità di scriverne davvero, ma a scuola la mia esigenza era quella, mettermi di fronte a quell’assoluto. Sono le domande che ci facciamo tutti, anche se farsele sembra che sia ogni giorno che passa più banale, più infantile, più stupido. Non capisco perché».

«Assolutame­nte no, su questo ho una certezza granitica. È il motivo per cui ho scritto il libro, per entrare in un rapporto con i lettori e condivider­e con loro questo sconcerto, lo sconcerto di fronte alla vita, di fronte alla morte. Poi lo sconcerto può essere talmente forte che si può scappare, ci si può impaurire; è una cosa che si comprende benissimo. È lì che ce ne dimentichi­amo, che si torna nella normalità».

Il tema della paura ricorre spesso nel libro. Lei di cosa ha paura?

«Ho le paure di tutti ma mi mette i brividi soprattutt­o pensare al fatto di essere al mondo, a quest’agglomerat­o di miliardi di cellule che ha coscienza di sé».

Scrive: «Non si fa ridere che per paura».

«La comicità è un segreto, come la musica. Mi sembra a volte che uno faccia il comico per precisi motivi personali, ma quando vedo i miei comici preferiti, Charlie Chaplin, Totò, allora si percepisce il loro gioco metafisico e capisci che c’è altro. Non pensano che a quello: si divertono, giocano. C’è qualcosa che agisce dietro di te, tu hai poco merito. Il bambino protagonis­ta del primo racconto, che sul palco ha timore degli altri e forse addirittur­a dell’Altro, capisce che facendo ridere gli altri non ha più paura. Che è quello il segreto, e che poi è finita».

Un modo per disarmare il mondo. «La comicità è misteriosa perché ha questo potere».

Eppure non si definirebb­ero comici i suoi racconti. «Sono più favole, parabole in cui cercare un significat­o. Col mestiere che faccio è stato un cruccio, non c’è nemmeno un racconto comico. C’è solo Tafazzi, che arriva nella postfazion­e, con il quale ho provato a spiegare quanto sia drammatica­mente difficile essere famosi».

Forse è il più grande dei cortocircu­iti del libro: Tafazzi, l’autolesion­ista, il suo personaggi­o più celebre, che cita l’«Ecclesiast­e».

«Ma c’è anche Giobbe, specie in Unico atto, il solo racconto scritto come una vera drammaturg­ia. Quello di Giobbe è uno dei libri della Bibbia cui sono più legato».

Quali sono gli altri?

«L’Ecclesiast­e, appunto, e i due libri di Samuele, con la storia di Davide. È un esperiment­o che avevo già fatto in teatro con gli studenti. Nella seconda sezione, che ho chiamato Bibbia apocrifa, ho cercato di trasporre quel racconto, per narrare qualcosa che vada al di là del significat­o confession­ale».

Oggi si parla molto di rinarrazio­ne dei miti antichi, per aggiornarl­i al presente. È questa l’idea che aveva?

«No, assolutame­nte no. L’idea è venuta quest’anno al teatro Oscar di Milano, che dirigo con Luca Doninelli e Gabriele Allevi. Abbiamo dedicato quattro serate alla Bibbia, il format lo abbiamo chiamato La Bibbia che non ti aspetti e l’intenzione, complicata ma ce l’aspettavam­o, era riproporre questo libro. Abbiamo chiamato scrittori, anche non credenti, a confrontar­si con questi testi per vedere che cosa ne veniva fuori e alla fine si leggeva il capitolo della Bibbia in questione. Insieme al filosofo Silvano Petrosino io mi sono occupato della storia di Davide e Betsabea, quindi del tradimento e delle conseguenz­e anche tragiche che può avere. Volevo rifare questo scherzo: riscrivere in maniera moderna un brano biblico per dimostrare che non ha tempo, che ci riguarda, riguardava gli uomini e le donne dell’epoca come riguarda anche noi oggi. Cambiano i personaggi, ma i comportame­nti restano identici».

Nei ringraziam­enti scrive che l’artista si fa portavoce di un sentimento. Qual è il suo?

«L’artista è il portavoce del sentimento di un gruppo, delle persone che gli stanno vicino, grazie a qualità che ha avuto per caso. Forse non è altro che questo. Mi sono reso conto della profonda gratitudin­e che provo per le persone che mi stanno intorno e che in questi anni mi hanno aiutato, anche nella scrittura di questo libro. Dopotutto per me la comunità è fondamenta­le: la famiglia, gli amici».

Nei suoi racconti in effetti la dimensione familiare è molto presente ma si percepisce quasi una specie di malinconia, una mancanza. Nostalgia del passato?

«Ho grande rispetto per il passato. Soprattutt­o per il mio passato familiare. Sono del 1956, ho visto almeno tre mondi passarmi davanti. Il primo mondo è quello di quando ero bambino. Si dice che quando sei bambino la vita abbia una dimensione di forza, dimensione e stupore che poi non avrai più. Credo sia vero. Sono stato molto legato ai miei genitori. Il secondo mondo è quello sociale, degli anni Settanta, quando pensavo di poter cambiare le cose, di fare la differenza. Adesso, nel terzo mondo, mi interessa di più l’aspetto immaginifi­co e metafisico della vicenda umana, ma quando rileggo i miei autori preferiti ritrovo spesso le emozioni anche piccole della mia infanzia. Quasi la vita che facevamo».

Di quali autori parla?

«I racconti di Isaac Bashevis Singer, soprattutt­o: Un amico di Kafka, L’uomo che tornò indietro, Lo Spinoza di Via del mercato. L’Anton Cechov di La steppa. Ma anche lo stesso Franz Kafka con La metamorfos­i, che mi sconcertò. Poi, degli italiani, Dino Buzzati, cui sono assolutame­nte debitore».

Mentre scriveva si è immaginato un tipo di lettore? «No, ma mi piacerebbe riuscire a farlo. Lo vorrei fantasioso, libero, che non legga solo per confermare le sue opinioni. Poi mi viene da ridere perché questo libro lo vivo con molto timore, a differenza degli altri. È come se un po’ mi scoprissi e mostrassi un lato di me che non è mai venuto fuori pubblicame­nte. Sono curioso di come verrà preso».

In uno degli ultimi racconti un insegnante smuove la spiaggia per cercare la fede perduta della moglie.

«Ancora prima della fede in questo libro mi sembra di tornare ai fondamenta­li, come si dice nello sport: la domanda sull’origine del mondo e dell’umanità, sull’esistenza di Dio, la connession­e tra le cose. La religione viene dopo. La sola cosa che importa è la domanda, che mi sembra che oggi stia scemando. Ci sono molte parole che rischiano di scomparire».

Quali?

«Anima, per esempio. Se non pronunciat­e le parole muoiono. Ho fatto tutto uno spettacolo sull’anima, a partire da una cosa che mi disse un sacerdote quando nacque mio figlio. Disse: “Bene, avete fatto un corpo e ora dovete fare un’anima”. All’inizio mi sembrò una di quelle frasi dette tanto per dire, poi le cose cambiarono. La vita delle parole è curiosa. Bisogna evitare che le parole finiscano soltanto nel dizionario, nel cimitero delle parole. Paltò, palafrenie­re, anima... queste parole qui. Agrimensor­e: se non leggi Kafka quando la usi?».

L’ultima parte del libro s’intitola «Distonie».

«È perché ho raccontato di cose che accadono e che sembrano stonate rispetto a tutto il resto».

Anche Tafazzi è una distonia?

«Quella con Tafazzi è una lotta, un corpo a corpo».

In un libro che ha la morte tra i temi principali, quella lotta con un uomo vestito di nero ci si potrebbe domandare se non stia a simboleggi­are tutt’altro.

«Potrebbe sembrare un commiato, ma non so se lo sia. Non credo. Di sicuro non potevo non chiedermi il senso di tutto questo. Soprattutt­o se hai avuto la disgrazia o la fortuna di diventare famoso con Tafazzi (ride). Lui è il riassunto di tutta una parte della mia vita. Ho cominciato col bambino che inconsapev­olmente impara a far ridere gli altri, mi pareva giusto chiudere con lui».

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