Corriere della Sera - La Lettura

...Perché siamo animali tra gli altri animali...

Lo sguardo universale della messicana

- CRISTINA TAGLIETTI

Isegreti e le ambiguità dei rapporti familiari, le vite di animali e piante che fanno da specchio, spesso deformato, al mondo degli uomini, i punti di svolta che invertono percorsi apparentem­ente stabiliti. Si intitola La vita altrove la nuova raccolta di racconti della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, una delle penne più sensibili, a livello internazio­nale, della generazion­e dei quaranta-cinquanten­ni, in uscita in italiano in anteprima mondiale per La nuova frontiera, nella traduzione di Federica Niola. Racconti in cui l’ordinario e l’anomalia, il quotidiano e l’insondabil­e, il reale e il fantastico si incontrano lasciando nel lettore una sottile, fertile inquietudi­ne.

Il titolo spagnolo della raccolta è «Los divagantes». Chi sono i «vaganti»?

«È anche il titolo di uno dei racconti, in italiano Albatri vaganti, in cui parlo di questi uccelli emblematic­i citati sia da Charles Baudelaire che da Samuel Taylor Coleridge. La vita della maggior parte degli albatri è abbastanza simile. Nascono in un luogo generalmen­te meridional­e; crescendo, percorrono enormi distanze grazie alle grandi ali che permettono loro di planare anche nel sonno, seguendo specifiche rotte celesti. Tornano poi al luogo d’origine per scegliere un compagno con il quale resteranno fino alla morte. Tuttavia, ci sono alcuni albatri che si perdono o impazzisco­no e scelgono di vivere alla deriva, senza cercare un partner e senza riprodursi».

I personaggi di questo libro sono così?

«Sono persone di questo tipo: a un certo punto si sono allontanat­i dal destino che sembrava tracciato per loro e sono salpati senza meta, personaggi che non fanno ciò che ci si aspetta da loro o la cui vita è stata segnata da qualche fatalità o catastrofe».

Come nel racconto «Torpore», in cui immagina un mondo distopico in cui il virus è diventato endemico e il confinamen­to permanente.

«Ho iniziato a scrivere questa storia segnata dall’esperienza del confinamen­to del 2020. Ho immaginato una società permanente­mente confinata, con un grande

controllo dello Stato sulla vita delle persone. Credo che il Covid abbia lasciato un trauma in tutti noi: la sensazione che la vita, così come la conosciamo, possa finire in qualsiasi momento. Che la “normalità” e il “quotidiano” siano estremamen­te fragili e soggetti a molte variabili. Non è un caso che dal 2020 si siano moltiplica­te le distopie, scenari di un mondo decadente che assomiglia al nostro, ma in cui i difetti della nostra società sono accentuati. Per me, il virus che appare in questa storia non è quello del Covid-19 ma qualsiasi altro. La malattia che causa questa letargia, questo modo di vivere svogliato, non è il Covid, ma il totalitari­smo e l’obbedienza radicale della gente alle regole imposte da questi governi. È una storia che parla dell’importanza della libertà e del prezzo che può costare riconquist­arla una volta persa».

Nello stesso racconto fa riferiment­o alla questione ambientale, ai cambiament­i climatici, grande tema del presente.

«La letteratur­a è spesso un riflesso di ciò che ci angoscia come società e credo che poche cose ci angoscino quanto quest’emergenza che la maggior parte dei governi sta ignorando. Mi spaventa il fatto che le temperatur­e stiano aumentando in questo modo, che le foreste più belle e più antiche del mondo brucino ogni anno per così tanti giorni, che molte specie stiano scomparend­o e che ancora più persone siano costrette a emigrare per motivi climatici».

Anche qui, come nei precedenti libri, animali e piante hanno un ruolo importante. Questa predilezio­ne ha a che fare con il rifiuto di un modello antropocen­trico o più con un’esperienza di vita?

«Mi piace pensare all’umanità come a una specie all’interno di un ecosistema in cui animali e piante sono interconne­ssi. Se dimentichi­amo la nostra animalità, sarà più difficile sapere chi siamo. Pensiamo a una persona che ignora tutto ciò che riguarda la sua famiglia, che non sa chi sono i suoi genitori o i suoi nonni o la storia del suo Paese. Viene privata di informazio­ni essenziali per conoscere sé stessa e formarsi un’identità, delle esperienze e dell’apprendime­nto di coloro che l’hanno preceduta. Gli animali ci dicono molto di noi stessi, non solo come esseri umani, ma anche a livello personale. Esistono terapie che prevedono la comunicazi­one interspeci­e. Ho letto che i delfini possono dare molto sollievo emotivo. Io stessa l’ho sperimenta­to con cani, gatti e cavalli».

La famiglia è un altro tema che lei esplora, in questo libro e in generale in tutta la sua opera. Nel romanzo «La figlia unica» ha raccontato anche esperienze di maternità (o di non maternità) che esulano dalla narrazione tradiziona­le. Pensa che la letteratur­a possa servire per raccontare modelli di famiglia diversi da quella biologica, che magari a livello politico non sono accettati ma nella società sono diffusi?

«Credo che nessuna famiglia sia uguale a un’altra, né quelle felici, come scriveva Lev Tolstoj, né quelle infelici. Si può essere felici in molti modi e si può essere molto infelici con la formula che si suppone funzioni. Esistono resoconti scioccanti di ciò che accade all’interno delle famiglie biologiche e testimonia­nze di persone che hanno vissuto un’infanzia felice in una famiglia non tradiziona­le. La letteratur­a e il cinema sono luoghi perfetti per conoscerle tutte».

Ma in generale, che cosa significa per lei «impegno»? Crede che uno scrittore possa avere un peso specifico nell’opinione pubblica?

«Non mi piace l’idea di usare la letteratur­a per uno scopo specifico, tanto meno per sostenere una causa particolar­e. Tuttavia, credo che la letteratur­a sia il luogo privilegia­to per sollevare questioni serie come l’etica e la morale, la politica, la famiglia, la coppia e la società in generale. Quello che mi piace della narrativa, a differenza dei saggi, è che non fa proselitis­mo. Si limita a mettere il dito su ciò che ci preoccupa o ci ferisce. Parla direttamen­te alle emozioni dei lettori».

In «Albatri vaganti» scrive: «Il mondo — lo so per esperienza — è pieno di “rarae aves”, di bestie rare che non sanno neppure di essere tali». La diversità è un altro dei temi che attraversa sempre i suoi libri.

«Non c’è niente che mi spaventi di più della standardiz­zazione di corpi, società, idee e narrazioni. L’umanità ha guadagnato molto dagli scambi culturali e genetici. Inoltre, per tornare al tema degli animali e delle piante: la natura stessa è una scuola di diversità. Credo sia necessario difendere il nostro diritto a essere diversi e ad accettare ciò che è diverso. Inoltre, come dice Caetano Veloso: nessuno è normale da vicino. Quindi l’idea dell’omologazio­ne è un’idea non solo terrifican­te, ma anche totalmente irrealizza­bile».

Leggendo alcune di queste storie, come «La porta rosa», si ha la sensazione che sarebbero potute diventare romanzi autonomi. Che cosa fa sì che per lei una storia diventi un racconto o un romanzo?

«Bella domanda! Penso a quasi tutto sotto forma di racconti. Penso di scrivere un romanzo quando non riesco a raccontare una storia in venti pagine, quando la storia e i personaggi mi sfuggono o sono troppo complessi, quando le domande che la trama suscita in me si moltiplica­no invece di ridursi, quando compaiono altre storie collateral­i con cui voglio intrecciar­e la prima».

Oggi si parla molto di appropriaz­ione culturale, come se si potesse scrivere solo di ciò che si conosce personalme­nte in base al genere, alla nazionalit­à, all’esperienza, eccetera.

«Penso che la letteratur­a guadagni molto quando parte dall’esperienza personale, ma non credo che questa debba essere una regola. L’importante è che il risultato sia bello, potente, commovente. Credo molto nel rispetto dell’altro, ma non credo che qualsiasi tipo di morale favorisca l’arte. Se un serial killer vuole scrivere le sue memorie, o un romanzo autobiogra­fico, non ho nulla in contrario! Ho letto e ammirato libri di persone con cui non uscirei mai a cena o a prendere un caffè».

Lei ha vissuto diversi anni a Parigi. Quanto ha influito la parentesi francese, e in generale europea, sulla sua scrittura?

«Il mio rapporto con Parigi non si è concluso, è una città in cui torno spesso anche perché ho amici importanti che vivono lì. Questi amici e le cose, belle e brutte, che ho vissuto lì hanno influenzat­o la mia scrittura. Ma direi che è un’influenza più esperienzi­ale che intellettu­ale, anche se ci sono alcuni scrittori francesi che hanno avuto un forte influsso su di me».

Quali sono?

«Sono molti! In francese, Charles Baudelaire, Marguerite Duras, Marguerite Yourcenar, Georges Perec, Annie Ernaux, Emmanuel Carrère, Maylis de Kerangal. Nella mia lingua Julio Cortázar, Enrique Vila-Matas, Elena Garro: tutti e tre sono grandi narratori. Nella vostra, Alda Merini, Natalia Ginzburg, Italo Calvino, solo per citarne alcuni. Ma trovo molto stimolante anche la lettura dei miei contempora­nei. Per esempio, leggo tutti i libri di Alejandro Zambra, Samanta Schweblin, Mariana Enríquez, Yuri Herrera, Cristina Rivera Garza, Valeria Luiselli, Juan Pablo Villalobos, Elisa Díaz Castelo, e sono sempre aperta a nuovi autori».

Ecco: alcuni fanno parte di quella che viene definita «una nuova generazion­e» di scrittori latinoamer­icani, a cui appartereb­be anche lei. Che cosa ne pensa?

«Mi sento parte di una generazion­e di scrittori messicani e latinoamer­icani che non sono più così nuovi (ride). Ma con i quali condivido ansie, desideri, esperienze e riferiment­i culturali, anche se i nostri libri sono molto diversi tra loro».

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