Corriere della Sera - La Lettura
Il fondo degli oceani è l’habitat ideale degli umani
Le esplorazioni molto politiche di Magellano, il capodoglio (interiora incluse): lo svedese viaggia nella fascinazione del mare e apre una collana
Il nuovo libro dello scrittore Patrik Svensson, L’uomo con lo scandaglio. Storie di mare, abissi e meraviglie (primo titolo di una nuova collana d Iperborea, I Corvi, dedicata alla saggistica narrativa internazionale) è nato, per così dire, nelle profondità marine. «Durante un evento dedicato agli oceani in Danimarca — racconta l’autore a “la Lettura” — ascoltai un passaggio di Rachel Carson in cui l’autrice americana descriveva il mare come un luogo in cui il tempo non esiste. Abissi in cui non c’è notte e non c’è giorno. Dove le stagioni non esistono e la temperatura è costante. In quel momento, si è acceso qualcosa nella mia testa. Ho iniziato a pensare all’oceano come a un luogo mitico e in larga parte inesplorato. Poi mi sono venute in mente tutte quelle persone che nel corso della storia hanno tentato di comprendere l’oceano, di conquistarlo, mapparlo».
Il testo di Svensson, come lo era il suo predecessore Nel segno dell’anguilla (Guanda, 2019), è un mosaico di storie narrate con piglio originale e coinvolgente. Le avventure nautiche di Magellano non sono soltanto il trionfo che viene spesso raccontato, ma una spedizione pericolosa e dal notevole peso politico, vista questa volta attraverso lo sguardo inedito dello schiavo dell’esploratore portoghese, Enrique di Malacca. Del capodoglio, grande predatore dei mari, si racconta invece di tutto, dalle caratteristiche delle interiora alle glorie letterarie, non tralasciando alcun aspetto, un po’ come i balenieri facevano con le sue carni durante la grande caccia dei secoli passati.
C’è spazio anche per temi inediti e sconosciuti ai più, come la commovente storia di Robert Dick, umile panettiere scozzese che per tutta la vita esplorò le coste oceaniche nei pressi della città di Thurso, in cerca di piante, rocce, insetti e soprattutto fossili di pesci preistorici. «Sono rimasto colpito e ammaliato dalla curiosità di quest’uomo dell’Ottocento — continua
Di Svensson (Kvidinge, Svezia, 1972) è Nel segno (Guanda, 2019). Il nuovo titolo apre la collana I Corvi di Iperborea: il 27 settembre seguirà Chi è nudo di Matthew Aikins. Svensson sarà a Mantova giovedì 7 (con Leonardo Piccione, Basilica di Santa Barbara, ore 16.45) Svensson — capace di svolgere un lavoro scientifico colossale senza appartenere ad alcuna università o a un altro ente scientifico. Credo che questo tipo di curiosità, tipica di alcuni esseri umani, nasconda una forza incredibile e inesauribile».
Se il mare è lo scenario, l’ambientazione, il cuore pulsante dell’opera sono le riflessioni di Svensson sui motivi profondi che spingono l’uomo a navigare per mari burrascosi o a immergersi nel buio perenne degli abissi per arrivare dove nessuno è mai stato prima, come fece l’intrepido equipaggio del batiscafo «Trieste» nel gennaio 1960. È in questi passaggi che le avventure dell’umanità intera si fondono con le esperienze dell’autore in un dialogo serrato. «Non sono un uomo di mare, ma sento una profonda connessione con l’oceano. Scrivendo questo libro ho capito qualcosa di più su di me e sulla provenienza di questa mia infatuazione. È connessa al fascino e al senso della meraviglia».
A favorire l’esplorazione guidata da Svensson è senza dubbio la sua lingua. Poetica e precisa, nordica ma al tempo stesso calda, capace di appassionare e di emozionare. In ogni pagina si avverte il legame dell’autore svedese con la letteratura di mare (Herman Melville e Joseph Conrad su tutti) e con chi, prima di lui, è riuscito a fondere con maestria contenuti tecnici e linguaggio lirico: ancora Rachel Carson, a cui è dedicato il meraviglioso capitolo che chiude l’opera. «Se dovessi scegliere un libro che ha cambiato la mia visione sul mare, direi senza dubbio Il mare intorno a noi (in Italia uscito per Piano B nel 2019, ndr ).Èun libro scientifico, su come si è formato il mare e sulle meraviglie che nasconde. È pieno di dati ma è scritto nella lingua più poetica che si possa concepire. Ha avuto un grande impatto su di me. Mi ha ispirato. Rachel Carson era in grado di raccontare la scienza come fosse letteratura, rendendola stupenda».
— nel lanciare suggestioni bibliche, ma per quanto le sacre scritture abbiano un ruolo rilevante nei Libri di Jakub, il Giacobbe di cui si parla nel romanzo non è quello della Genesi, bensì Jakub Frank, controversa figura della Polonia settecentesca, avventuriero, manipolatore, eresiarca e auto-proclamato messia. Frank trovò spazio proponendosi come reincarnazione di Sabbatai Zevi, cabalista del secolo precedente e a sua volta messia auto-proclamato, la cui dottrina ancora nel Settecento trovava seguaci tra gli ebrei polacchi. Il «frankismo», però, arrivava a includere elementi di dottrina cristiana e islamica, e addirittura un’idea gnostica di illuminazione attraverso la trasgressione.
Per quanto I libri di Jakub sia un romanzo storico, si distacca dal genere per le modalità espressive, che sono appunto quelle del «grande romanzo massimalista»: un romanzo storico tradizionale ci avrebbe raccontato la curiosa storia di Jakub Frank attraverso la sua vita, ponendo sullo sfondo le vicende dell’epoca, come il collasso della Confederazione polacco-lituana. Tokarczuk ribalta invece la prospettiva, mettendo al centro della scena decine e decine di personaggi minori: rabbini, mercanti, villici, scribacchini, pazzi e diplomatici, ognuno con la sua prospettiva sul mondo e la sua storia personale, e ricostruisce la grande vicenda umana e spirituale di Jakub Frank attraverso una moltitudine di punti di vista, documenti, racconti, dialoghi e visioni, facendola divenire il canale principale di un bacino dove confluiscono riflessioni teologiche, storia del costume, geopolitica, dottrine scientifiche e pseudoscientifiche e considerazioni sull’antisemitismo.
In filigrana, ne emerge anche un ritratto inedito della Mitteleuropa in un periodo storico noto ai lettori polacchi e lituani ma per lo più sconosciuto a tutti gli altri: Tokarczuk fa iniziare il suo grande viaggio nel 1752 a Rohatyn, città oggi situata in Ucraina e all’epoca sotto il dominio polacco, ma condurrà i lettori in ogni angolo dell’Europa centrale (e non solo: si va anche in Grecia e in luoghi che non appartengono alla geografia umana). Facciamo così la conoscenza di padre Chmielowski, impegnato nella scrittura di un’«enciclopedia definitiva» (realmente esistita: s’intitola La Nuova Atene) e del suo amico rabbi Elisha Shorr; della nobildonna Katarzyna Kossakowska e della sua accomagnatrice Elzbieta Druzbacka, che diventerà corrispondente dell’enciclopedista; del medico ebreo Asher Rubin e del vescovo giocatore Kajetan Sołtyk; del tipografo Josef Golczewski e del giovane Nachman Jakubowski, che vuole scrivere un libro su Jakub Frank (in un romanzo così non poteva mancare certo un piano metaletterario), fino ad arrivare proprio a Frank, che nel frattempo ha raccolto una ragguardevole corte di accoliti, e viaggia con loro tra l’Europa orientale e l’Impero Ottomano alla ricerca di una terra promessa in cui praticare il nuovo culto.
Tra mille vicende sia storiche che finzionali, Tokarczuk sceglie di porsi in una prospettiva di tipo «divino», poco frequente in un panorama letterario traboccante di narrazioni non solo in prima persona, ma anche centrate sull’esperienza diretta dell’autore. Non lo fa tornando indietro al romanzo ottocentesco, come proponeva poco lucidamente Jonathan Franzen una decina d’anni fa, ma cercando una sorta di «quarta persona» (parole dell’autrice), ovvero una visione in terza persona non per forza onnisciente, a volte sovrapponibile ai personaggi, a volte capace di volare più in alto o molto più in alto.
Non è la prima volta che Tokarczuk mira a trascendere i punti di vista umani — si pensi agli squarci lisergici che scandiscono Nella quiete del tempo — ma in questo caso il tentativo è sistematico e passa attraverso la figura della mistica visionaria Yente, introdotta fin dal prologo (per chi se lo chiedesse: sì, ci vorra molto, molto tempo prima di incontrare Jakub Frank in persona) e capace di vedere «ogni cosa dall’alto».
Un tipo di ricerca che conferma il posizionamento di Tokarczuk tra i «nuovi metafisici», assieme al romeno Mircea Cartarescu, al bulgaro Georgi Gospodinov e all’ungherese László Krasznahorkai, sebbene rispetto a questi autori la polacca abbia dalla sua anche una particolare capacità di raccogliere influenze dai propri immediati contemporanei: come nei Vagabondi si dimostrava la prima autrice in grado di rielaborare in modo nuovo la lezione di Sebald, qua, come indica chiaramente il sottotitolo — Il grande viaggio/ attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni,senza contare quelle minori. / Narrato dai morti, e dall’autrice completato col metodo della congettura, da molti e vari libri attinto,/ e sorretto inoltre dall’immaginazione che dei doni naturali dell’uomo è il più grande... —, tra i punti di riferimento c’è il lavoro di William T. Vollmann sul romanzo storico, innervato da una sensibilità prettamente europea. Come il miglior Vollmann, Tokarczuk riesce a catturare una sfuggente «metafisica della storia» e a trascendere così il genere: I libri di Jakub non sarebbe il grande romanzo che è se si limitasse al passato — o alla riflessione su come il romanzo storico si rapporti a esso — e non ci raccontasse qualcosa anche dell’oggi; e se il suo Jakub Frank a volte assomiglia a figure carismatiche come Sai Baba, Sun Myung Moon o il fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, anche il mondo in cui si muove, vittima di forze centripete incontrollabili, ci dice qualcosa del nostro — o meglio, ci avverte come un’oscura profezia.