Corriere della Sera - La Lettura
Lo spirito divino sembra un po’ diabolico
Abbi pietà del mio piccolo dolore si legge come se provasse a essere il diario romanzato di Il libro dell’esperienza di Angela da Foligno nonché, per come è trattata la religiosità visionaria, Il libro delle opere divine di Ildegarda di Bingen.
L’opera di Victoria MacKenzie mostra, infatti, una lingua ascetica, di evidente carnalità mistica, mentre la struttura — significativa la disposizione a due voci della narrazione come la divisione trinitaria delle parti — si sviluppa a mo’ di scampoli di memoriale in cui la funzione del paragrafo ispessisce costantemente l’aura teologica di cui è impregnato tutto il libro.
La storia è orizzontale, facile da riassumere, breve e intensa. È basata sulla vita di due donne vissute tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo nel nord dell’Inghilterra. Il romanzo di MacKenzie si fonda sulla traduzione di B.A. Windeatt di Il libro di Margery Kempe e sulla traduzione di Elizabeth Spearing di Rivelazioni dell’amore divino di Julian di Norwich. Due donne, Margery e Julian, le quali si ritrovano in preda a visioni, abbagliate e atterrite dalle dirompenti manifestazioni del divino. Decidono, tuttavia, di donarsi al mistero della fede, di non etichettarlo come illusorio. Lo fanno in maniera diversa, ma egualmente tenace. Nonostante il velenoso sospetto della gente — si crede che Margery sia posseduta (considerate le sue visioni malvagie), mentre Julian teme soprattutto l’accusa di eresia — intraprendono un personale percorso di salvazione, di adorazione, in cerca di comprensione contro la realtà molesta del mondo che le etichetta con malizia.
Margery parte da King’s Lynn alla volta di Norwich, abbandonando la famiglia, su suggerimento dell’amico monaco carmelitano, padre Aleyn, al fine di poter dialogare con l’anacoreta, quindi ottenere risposta sull’eventuale possessione. Julian, invece, qualche anno dopo la morte della madre, sceglie proprio di diventare anacoreta e rifugiarsi in una cella attaccata alla chiesa di Saint Julian da cui prende il nome. La cella è composta da «tre muri di selce e un basso tetto di paglia ed è abbarbicata come una patella al fianco della chiesa. Ci sono tre finestre: una è stretta e cruciforme e affaccia direttamente sulla chiesa, cosi posso partecipare a tutte le messe e alle feste, confessarmi e ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Da questa finestra intravedo l’altare maggiore e la sua candela, che spesso è la mia unica luce».