Corriere della Sera - La Lettura
Vita e amore in forma di tarocchi
Nel cuore del secondo romanzo di Gaia Giovagnoli, meno esuberante nella trama ma più padrona dello stile, stanno le vicissitudini di una coppia: litigano, si riconciliano, si tradiscono, lei se ne va e lui... E un ruolo chiave hanno anche le carte
Quando vogliamo conoscere il futuro poniamo le domande al presente, perché il tempo dell’angoscia sembra immobile, senza progressioni. È così anche per India, protagonista di Chiedi se vive o se muore, secondo romanzo di Gaia Giovagnoli, pubblicato come il precedente da Nottetempo. Il suo tarlo riguarda Leo, un ex fidanzato che si è buttato dalla finestra. Sopravvive? Vuole farla sentire in colpa? Ma soprattutto, la storia con lui — viscerale, dolorosa, marcescente — può rivelarsi abbastanza a lieto fine da lasciare spazio a quella nuova, senza di lui?
Amore in primis, e poi lavoro, soldi, salute: non c’è persona che non si arrovelli per almeno uno fra questi grandi temi, e che non si stia chiedendo se le cose, prima o poi, si sistemeranno; se la fortuna finalmente le sorriderà. In quale campo non importa: vogliamo tutti speranza e soluzioni, più di quanto invochiamo quel «barlume che vacilla» (copyright Eugenio Montale) chiama-to felicità. Il segreto di India per procacciarsi risposte, e cioè per avere una specie di controllo sul destino e sull’angoscia, è leggere i tarocchi. Ed è come «un libro ispirato ai tarocchi» che Gaia Giovagnoli descrive questo suo romanzo, in una nota di chiusura. Ispirato a: espressione tanto vaga quanto versatile, giacché Chiedi se vive o se muore — titolo bellissimo — parte dai tarocchi per raccontare tre storie diverse: quella di una ragazza che incrocia le vite problematiche degli altri, dai membri della sua famiglia agli sconosciuti che le chiedono una lettura delle carte, e ne assorbe sempre un po’; il romanzo di una formazione divinatoria, che spiega come ci si innamora degli arcani e ci si allena a interpretarli, pur restando incapaci di prevedere le cose apparentemente piccole che definiscono il nostro destino; la ripresa a ralenti di un amore che si schianta mentre un altro sorge, e di una donna che impara, forse, a bastare a sé stessa.
India vive con Leo. Sono entrambi giovani, entrambi addolorati; per il resto, il sole e la luna (carta diciannove, carta diciotto). Lei, toscana, si è trasferita nel paese di lui, profondo sud, dove si sente straniera. Il loro amore è unico, come tutti gli amori, e come tutti gli amori (quelli sbagliati) sembra trarre forza dalle fratture, dai punti deboli, dalle piccole o grandi ferite che gli amanti (carta sei) si provocano reciprocamente. Leo tradisce India e India tradisce Leo, che per vendetta la chiude per giorni in uno stanzino. Quando la porta viene riaperta, le cose sono ormai insanabili: lei, già innamorata di un altro, Yari, torna a casa dai suoi, in Toscana, e poi fugge da Yari, a Londra. Ma un giorno riceve la telefonata della mamma di Leo, in lacrime: «È caduto giù».
La narrazione inizia qui, come una lunga lettera d’addio al fidanzato in coma, che in un modo o nell’altro — per mezzo della morte (carta tredici) o della voglia di rinnovamento — alla fine della storia sarà un fantasma. I tarocchi fanno da pretesto metaforico e strutturale, perché gli arcani con cui India si confronta maggiormente sono in realtà quelli che non richiedono competenze cartomantiche: relazioni, indipendenza, felicità, dolore, rapporto col proprio corpo e con i luoghi. Come si gestiscono queste cose belle e complicate che rendono la vita spesso insopportabile? Come si impara a volersi, e a volere, bene?
«Io e te abbiamo stretto il nostro legame nei momenti di crisi,» dice India a Leo, che non può sentirla, steso com’è nel letto d’ospedale, «perché siamo bravi a sguazzare nel male e a crearci in mezzo un ecosistema — è il nostro vero talento. Litigio, affetto. Disastro, amore. Da una cosa si genera subito l’altra. Esiste una crisi migliore di te che cadi dal balcone? Delle ossa rotte e degli ematomi?».
A questa crisi «migliore», cioè quasi perfetta per la sua problematicità, Giovagnoli affida l’intero romanzo, che è sia una conferma sia un segno di emancipazione dal libro precedente, Cos’hai nel sangue, pubblicato nel gennaio del 2022. Piccolo ma ingombrante, Cos’hai nel sangue raccontava l’indagine di una figlia sul passato della madre, e la scoperta di un segreto famigliare inquietante e pieno di fascino, che esplodeva in una pirotecnia di descrizioni fantantropologiche — costumi, creature, paesaggi e riti immaginari. Lì, la lingua era ferma e precisa, ma un po’ in ombra rispetto alla storia, sbizzarrita al punto che la fantasia finiva per cannibalizzare la forma. In Chiedi se vive o se muore, invece, accade il contrario: la storia è semplice, i suoi snodi piuttosto comuni, ma stile e consapevolezza dell’autrice fanno passi in avanti anche a nome del contenuto, e confezionano un romanzo completo, più godibile del precedente, anche se inevitabilmente meno sperimentale. A risaltare, stavolta, è soprattutto la voce di Giovagnoli, che non viene schiacciata dalla cosmesi espressiva — cioè dal vizio di marcare troppo, di estremizzare ciò che si era immaginato, per la paura di non essere incisivi — che a volte influenza gli esordi. Il risultato è un libro in cui ogni emozione sembra vera e ogni episodio realmente avvenuto. In particolare la relazione fra India e Leo, e la progressione verso il suo disfacimento, è raccontata con sincerità e un percepibile dispiacere.
Certo, il perturbante non manca. A un certo punto della storia, in un momento definito come «un inferno», compare una falena gigante. Leo e il papà di India provano a ucciderla con lo spray, ma non ci riescono, e la falena soffre, e soffrendo emette uno strillo.
Toccherà a India finirla. Con una scarpa. È una scena emblematica per tante ragioni, ma soprattutto perché dà l’idea di cosa basti a un’autrice appena più sicura di sé — che si sta formando e sta scoprendo sé stessa senza passi falsi, ben guidata e già riconoscibile — per lasciare la propria impronta. Che si nasca falena o scrittrice, a fare la differenza, a permettere di essere ricordate, è la voce, e quella la tiri fuori solo quando soffri davvero. Può sembrare debolezza, ma è l’unica vera forza (carta undici).