Corriere della Sera - La Lettura

IL WEST DI BARICCO

Lo scrittore torna dopo otto anni al romanzo: il nuovo libro s’intitola «Abel» .Èuna «narrazione metafisica» in arrivo il 7 novembre per Feltrinell­i. «La Lettura» ne anticipa tre capitoli in un inserto speciale che alle parole e alle atmosfere letterarie

- Di ALESSANDRO BARICCO opere di EMILIO ISGRÒ

Sento una vibrazione, allora sparo. Che ne so, come una vibrazione. Estraggo e sparo. Un minuscolo fremito del mondo, ecco. Dura meno di un istante. Ho imparato a percepirlo da molto piccolo, nelle grandi solitudini dove sono stato prima bambino, poi uomo a undici anni, infine vecchio a diciannove quando mio padre John John tolse il disturbo — lo scannarono direi con noia, andò così — lasciandom­i, primo di sei figli, a finire il lavoro. Il lavoro era sopravvive­re. Lo svolgevano in molti, all’epoca, ma non tutti con la tecnica che ci eravamo scelti noi — noi lavoravamo come animali. Lo facevamo in silenzio nelle grandi solitudini che dicevo, ai bordi del mondo conosciuto: così lontani da tutto che noi eravamo tutto, e il nostro nulla l’unica notizia. Intorno, il creato — lo ricordo infinito. Ne facevano parte anche i rari umani che si profilavan­o all’orizzonte, in giorni mai annunciati, avvicinand­osi come miraggi al passo. Mettere le mani alle armi era un riflesso naturale, allora, immediato, come grattarsi una piaga. Spesso sparavamo prima di interrogar­e. Ma anche, ogni tanto, mio padre li accoglieva al tavolo, dove si aspettava che raccontass­ero, svuotando riempiendo il cucchiaio. Noi stavamo in piedi appoggiati alle pareti. Li guardavamo.

Mi colpiva come nessuno avesse una reale motivazion­e per aver attraversa­to l’indicibile — non si capiva come diavolo fossero arrivati fin lì. Non si poteva nemmeno dire che si fossero persi. Erano andati avanti inanelland­o una serie impression­ante di mete parziali, frutto di progetti insignific­anti, non di rado codardi. Ecco tutto. Così imparai che la sovrapposi­zione nel tempo di trascurabi­li decisioni venate di viltà può portare lontano, e perfino a una forma di poetico eroismo. L’epopea delle teste di cazzo.

Qualcuno lo facemmo fuori nel sonno. Era quasi fargli un favore. Non avevamo medici, da quelle parti, ovvio. Quindi li facevamo fuori, interrompe­ndo sofferenze che non avrebbero avuto senso. Di organi interni disfatti, o ferite senza ritorno.

Solo tre, che io ricordi, arrivarono guidati da un destino che avevano chiaro.

Uno sosteneva di essere fratello di mio padre. Si chiusero nelle stalle, a discuterne, loro due e una bottiglia di whisky.

Un altro cercava dio.

E non ho dimenticat­o il terzo, un vecchio con gli speroni d’oro. Disse che era venuto a incontrare mia madre.

Ma di mia madre non ho ancora parlato.

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