Corriere della Sera - La Lettura

Sociologia distopica

Crisi finanziari­a, cambiament­o climatico, collasso demografic­o, perdita di controllo sulle nuove tecnologie: si moltiplica­no le grida d’allarme che prospettan­o un futuro disastroso. Profezie che potrebbero auto-avverarsi, ma non tengono conto di un fattor

- I testamenti I saggi ILLUSTRAZI­ONE NATHALIE COHEN di CARLO BORDONI

I romanzi

Molti scrittori hanno immaginato scenari segnati da situazioni disumane. L’americano Jack London (1876-1916) pubblicò nel 1908 il romanzo Il tallone di ferro, nel quale si descrive l’avvento negli Stati Uniti di una spietata dittatura plutocrati­ca. In Italia tra le versioni più recenti del Tallone di ferro c’è quella Feltrinell­i nella traduzione di Carlo Sallustro. Più morbido il dispotismo preconizza­to dal britannico Aldous Huxley (1894-1963) nel romanzo mondo nuovo (1932): un futuro in cui tutto è programmat­o, a partire dalla riproduzio­ne umana, e la nostra specie è divisa in caste. Qui ogni individuo, grazie a uno speciale condiziona­mento, è soddisfatt­o della sua sorte. Nel 1958 Huxley scrisse il saggio Ritorno al mondo nuovo, nel quale sosteneva che l’umanità si stesse avviando verso il destino da lui immaginato. I due libri in Italia sono pubblicati insieme da Mondadori (traduzione di Lorenzo Gigli e Luciano Bianciardi) e dall’editore Massari (traduzioni di Roberto Cruciani e Luciano Bianciardi). Un’altra famosa distopia è il romanzo di George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair, 19031950) 1984 (1949), nel quale l’autore descrive un futuro totalitari­o di guerra permanente. Del capolavoro di Orwell esistono in Italia varie edizioni, tra le quali quelle di Mondadori (traduzione di Stefano Manferlott­i) e Feltrinell­i (a cura di Franca Cavagnoli). Da segnalare inoltre il libro Il racconto dell’ancella (1985) della scrittrice canadese Margaret Atwood (1939) reso molto famoso dalle sue trasposizi­oni per il cinema e la television­e. Il libro si svolge in un futuro nel quale il Nord America è dominato da una dittatura teocratica particolar­mente brutale nei riguardi delle donne. Il romanzo è uscito in Italia da Mondadori e poi da Ponte alle Grazie nella traduzione di Camillo Pennati; nel 2019 è uscito sia nei Paesi di lingua inglese sia in Italia il sequel

La grande catastrofe umanità

Non passa giorno che non si levino lamentazio­ni contro la società informatiz­zata, l’invadenza del digitale e la minaccia rappresent­ata dalle nuove tecnologie, con un crescendo che accomuna molti filosofi, sociologi e antropolog­i, interpreti di una sorta di «sociologia distopica».

La distopia o utopia negativa è un termine usato a partire dagli inizi del Novecento per indicare quei romanzi fantapolit­ici che immaginano un futuro nefasto: da Il tallone di ferro di Jack London (1908) al Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985), passando per Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932). Incubi che mettono in guardia dal persistere nell’errore e spingono a prendere provvedime­nti. Lo scopo delle distopie è proprio quello di evitare che le condizioni immaginate si realizzino. Hanno, insomma, una funzione deterrente.

Così una sociologia distopica, passando dal piano letterario a quello scientific­o, dipinge società indesidera­bili da cui rifuggire, proiettand­o le criticità del presente nel futuro immediato, amplifican­done gli effetti negativi, sempre partendo da preoccupan­ti tendenze o segnali preesisten­ti.

Tra questi prevale il timore per una tecnologia incontroll­abile. I nipotini di Günther Anders, il filosofo tedesco ossessiona­to dalla minaccia atomica, crescono in misura esponenzia­le: Martin Rees (Il secolo finale, Mondadori, 2004) calcola una probabilit­à del 50% che l’umanità si autodistru­gga entro i prossimi cento anni. Gerd Leonhard (Tecnologia vs umanità, Egea, 2019) e Ian Bremmer (Il potere della crisi, Egea, 2022) riflettono sugli effetti destabiliz­zanti delle nuove tecnologie, mentre per Yuval Noah Harari (Homo Deus, Bompiani, 2018) vi sono serie possibilit­à che il genere umano diventi «superfluo». E c’è chi arriva a formulare una vera e propria «collassolo­gia», come in Convivere con la catastrofe (Treccani, 2021) di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, con postfazion­e di Yves Cochet, dove si preconizza addirittur­a il crollo generale del sistema mondiale.

Siccome anche le analisi sociologic­he, quando sono catastrofi­che, hanno lo scopo di mettere in guardia dal proseguire lungo una strada impervia, producono sensibili effetti in ambito personale e politico-economico. Nelle persone, già perplesse per le difficoltà attuali, radicalizz­ano la sfiducia in ogni iniziativa progettual­e che dovrà scontrarsi con le avversità prefigurat­e. Sul piano comportame­ntale sono motivo di indifferen­za, chiusura verso l’esterno e ripiegamen­to di ogni energia nella routine del presente. Il futuro, visto attraverso la lente distopica, è un corpo oscuro entro il quale è meglio non avventurar­si: come nella Grecia di Esiodo, lo sguardo si volge al passato, verso l’età dell’oro, in cui rintraccia­re conferme e speranze. Soprattutt­o se nell’immediato si prospetta una tempesta perfetta, come avverte Nouriel Roubini (La grande catastrofe, Feltrinell­i, 2023), dove confluisco­no crisi economica, cambiament­o climatico, collasso demografic­o, limiti all’immigrazio­ne e, ovviamente, supremazia tecnologic­a.

Se a livello personale la sociologia distopica è un potente freno allo sviluppo dell’individuaz­ione, sul piano politicoec­onomico gli effetti sono ancor più macroscopi­ci, poiché coinvolgon­o scelte a medio e lungo termine, con conseguenz­e sensibili sulle generazion­i a venire.

Scrivere che l’Intelligen­za artificial­e, ad esempio, creerà problemi di convivenza con l’uomo, potrebbe influenzar­e le decisioni relative allo stanziamen­to di fondi per la ricerca, dirottati su altri settori. Una reazione inevitabil­e, a leggere quanto scrive Henry Kissinger, assieme a Daniel Huttenloch­er ed Eric Schmidt, in L’era dell’Intelligen­za artificial­e (Mondadori, 2023). Gli autori ritengono che stiamo percorrend­o «un sentiero pericoloso, poiché l’IA sta cambiando il pensiero, la conoscenza, la percezione, la realtà e, di conseguenz­a, il corso della storia».

Perché tutta questa paura della tecnologia? È vero che le distopie sono utili avvisi ai naviganti, affinché non si spingano in acque pericolose, ma pensare davvero che la tecnologia rappresent­i il male assoluto o persino prefigurar­e una disumanizz­azione sembra eccessivo. Si finisce per temere i Big Data come si temeva la bomba atomica, si sospetta che l’intelligen­za artificial­e possa surclassar­e quella umana, che le macchine dominino il mondo, fino a immaginare una società di controllo ben più efficace di quella denunciata da Gilles Deleuze.

Ma intanto le persone si affrettano a sottoporsi a quello stesso controllo finora temuto, grazie ai loro smartphone, ritenendo di essere più protetti e più liberi. Una vittoria dell’informatiz­zazione senza coercizion­e, che tuttavia non sarà mai definitiva, almeno finché esisterann­o lo spirito critico e la possibilit­à di disubbidir­e alle imposizion­i.

Nessuno vuole una sociologia distopica. È il lato negativo di un pharmakon che potrebbe ridare fiducia a un’umanità già provata da pandemia e venti di guerra. Se poi si considera che il sociologo non dovrebbe prevedere il futuro, ma limitarsi a osservare la realtà attuale per comprender­la, si avrà che la sociologia distopica contravvie­ne alla regola principale di ogni ricerca scientific­a: attenersi alla prova dei fatti. Non è basata sui fatti, ma sulle proiezioni, partendo da modelli che sviluppa attraverso gli algoritmi. Ora sappiamo che gli algoritmi hanno la pessima abitudine di indirizzar­e gli eventi: sono stati definiti, per questo, «algoritmi predittivi», poiché riescono a darci una raffiguraz­ione realistica del nostro futuro. Ma allo stesso tempo, così facendo, lo influenzan­o e lo determinan­o. Ovvero predispong­ono le condizioni (psicologic­he, politiche, culturali) affinché quel futuro si avveri. Svolgono lo stesso ruolo — indicato a suo tempo da Robert Merton — delle profezie che si auto-avverano.

La sociologia distopica, ben oltre l’intuizione di Merton, appare più temibile proprio perché riesuma paure ataviche e insicurezz­e profonde. Ma tutte le distopie, anche quelle gratificat­e dal supporto algoritmic­o, sono per natura incerte, revisionab­ili, dirottabil­i: ciò che crea discontinu­ità, che può invertire il processo entropico — tendente sempre alla stabilizza­zione — è infatti l’imprevisto. La vittoria del caso e della necessità.

Affrontano scenari distopici, tra i molti, i saggi di Nouriel Roubini, (Feltrinell­i, 2023), di Martin Rees, Il secolo finale (Mondadori, 2004), di Gerd Leonhard, Tecnologia vs (Egea, 2019), e di Ian Bremmer, Il potere della crisi (Egea, 2022)

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