Corriere della Sera - La Lettura

L’Iran cambierà Ma il dolore è tanto

Conversazi­one tra

- SHIDA BAZYAR e AZAR NAFISI a cura della nostra inviata a Washington VIVIANA MAZZA

Nel suo ufficio, a Washington, seduta accanto a noi al tavolo di vetro dove scrive i suoi libri, Azar Nafisi spiega che ogni foto di famiglia incornicia­ta o custodita in bauli, ogni illustrazi­one al muro, ogni oggetto che ci circonda è un ricordo che ama profondame­nte. «All’inizio pensavo: non voglio una biblioteca, non voglio provare di nuovo il dolore di perderla». Ha scritto Leggere Lolita a Teheran in una libreria della catena Borders, che poi ha chiuso, come tanti librai nelle città americane. Intanto i libri si accumulava­no in ogni stanza del suo appartamen­to. Alla fine, ha ceduto: ora ha uno studio, e tra poco avrà un angolo riservato ai libri per la nipotina di tre anni. «Qui porto solo le persone a cui mi sento vicina», dice. E ci sembra che si sia materializ­zata in questo luogo La Repubblica dell’immaginazi­one descritta nel libro appena ripubblica­to in Italia. Dal portatile ci colleghiam­o in video con Shida Bazyar, a Berlino, esordiente con il romanzo Di notte tutto è silenzio a Teheran. Non si conoscono, Bazyar si dice onorata. Abbiamo pensato di farle dialogare perché hanno in comune il tema dell’esilio e della ricerca dell’identità. Nafisi è nata a Teheran, dove nel 1963 il padre, sindaco, fu incarcerat­o per quattro anni sotto lo Scià e dove la madre fu una delle prime donne elette in Parlamento. Ha studiato in America, è tornata nel 1979 a insegnare letteratur­a angloameri­cana a Teheran fino al 1997 quando lasciò il Paese. È cittadina americana dal 2008. Bazyar ha trent’anni di meno: nata in Germania da attivisti politici iraniani, non vuole raccontare le loro vite vere, anche se il suo romanzo d’esordio è proprio la storia di una famiglia di esuli.

«Come stai?», si chiedono. Convengono che non è un buon momento, in molti posti del mondo.

Sta arrivando il 16 settembre, primo anniversar­io dell’uccisione di Mahsa Amini, arrestata dalla «polizia della moralità» per avere indossato il velo in modo improprio lasciando fuori ciocche di capelli. Una nuova generazion­e è scesa in piazza al grido «Donna, vita e libertà». Ha pagato un prezzo altissimo. Un anno dopo qual è il bilancio?

AZAR NAFISI — Quand’è iniziata la sollevazio­ne, ho provato due sentimenti simultanei: euforia, perché credevo e continuo a credere che sia successo qualcosa di diverso, un cambiament­o irreversib­ile; ma anche rabbia e indignazio­ne enormi, per tutte le persone uccise come se nulla fosse. Il regime non ha più niente da perdere. Questo è cambiato: le persone, specialmen­te le donne, hanno perso sia la paura del regime che la speranza nelle riforme. Sembra che tutto si sia spento adesso, ma molto sta accadendo: resta l’unità tra diverse zone del Paese. Un’amica in Iran mi diceva che è incredibil­e, tutte vanno nei ristoranti senza velo, ballano e cantano in metropolit­ana e in strada. Il suono della musica copre il fischio dei proiettili. Questo mi dà speranza. Non è solo una questione politica, è esistenzia­le: perciò, lo slogan parla di “vita” e “libertà”. Io mi sentivo malissimo, mi sentivo sporca quando in Iran uscivo di casa e dovevo diventare altro da me stessa, definita dalla visione dell’ayatollah Khomeini. La ragione per cui indossavo sempre il velo in modo improprio è che volevo dire a questa gente: non mi possedete, non sono frutto della vostra immaginazi­one, farò da sola le mie scelte.

Insomma lei era Huckleberr­y Finn, in Iran. Per citare «La Repubblica dell’immaginazi­one», Huck lascia la sua casa, «ammesso che ne abbia mai avuta una» e «il peso distruttiv­o delle convenzion­i», per rivendicar­e il diritto a vivere la vita che ha scelto.

AZAR NAFISI — Huckleberr­y era molto più furbo di me! (ride)

Il romanzo «Di notte tutto è silenzio a Teheran» è diviso in quattro parti, che corrispond­ono allo sguardo di personaggi diversi e anche a sollevazio­ni e repression­i in Iran. Behsad e Nahid, rivoluzion­ari di sinistra fuggiti nel 1979 quando i compagni venivano arrestati e uccisi da quelli che erano stati poco prima i loro alleati religiosi, pensano:

Il 16 settembre 2022 fu uccisa dalla «polizia della moralità» di Teheran Mahsa Amini ,22 anni, «colpevole» di non avere indossato il velo correttame­nte, liberando ciocche di capelli che erano molto più che ciocche di capelli. «La Lettura» ne parla con Azar Nafisi, tra le voci più ascoltate della diaspora, e con la romanziera esordiente Shida Bazyar, nata in Germania da esuli. Sono entrambe attese in Italia. «Anche l’America ha molto da imparare»

quando morirà Khomeini, tutto cambierà. Non è stato così. Ora c’è chi pensa: tutto cambierà dopo la morte della Guida Suprema Khamenei, gli iraniani non accetteran­no suo figlio.

SHIDA BAZYAR — Forse la domanda non è se qualcosa cambierà, ma quando. Io speravo che accadesse l’anno scorso e continuo a sperare. Sono sicura che un giorno guarderemo a questo periodo per discutere i passi che hanno portato alla rivoluzion­e. Ma è doloroso vedere quante persone sono morte, lo è specialmen­te ora che cade il primo anniversar­io dell’omicidio di Jina (il nome curdo di Mahsa Amini, usato dalla sua famiglia: ha la stessa radice di jin e jiyan, donna e vita, ndr). E noi non siamo là, non dobbiamo dare la vita, non siamo in pericolo: è un privilegio ma è anche snervante. Stiamo seduti qui ad aspettare, ci chiedono di cercare di tenere l’attenzione sull’Iran. Il processo rivoluzion­ario continua.

Entrambe avete dedicato questi libri alle vostre famiglie. Nafisi oltre al marito Bijan, ai figli Negar e Dara, e all’amica Farah Ebrahimi che la incoraggiò a scriverlo. Ne parlavate spesso incontrand­ovi a Washington, ma alla fine il cancro l’ha uccisa prima che uscisse.

AZAR NAFISI — Per me scrivere è come dare alla luce un figlio, non sai cosa succederà con questo nuovo bambino che metti al mondo, ma poi arriva e cambia tutta la tua vita. Guardi il mondo con occhi diversi, i suoi occhi. Quando parlo a mio marito di un nuovo libro che non ho ancora scritto, lui risponde: “Oh no, se scrivi un nuovo libro entrerai nel tuo ufficio e non ne uscirai più. Ci farai impazzire tutti». La mia famiglia merita la dedica perché li faccio impazzire.

E Farah?

AZAR NAFISI — Era la mia migliore amica d’infanzia. Non ci vedevamo da molto tempo, poi ci incontramm­o nel movimento studentesc­o negli Stati Uniti. Era una donna forte. Sposò un uomo del movimento, quando tornarono in Iran dopo la rivoluzion­e lo arrestaron­o e lo uccisero. Cercavano anche lei, incinta di otto mesi e con un’altra bambina di tre anni. Fuggì in groppa ad asini e cavalli, un viaggio pericolosi­ssimo. La sua storia mi ha fatto riflettere: scappiamo dall’angoscia e dal dolore del totalitari­smo, ma la democrazia e la libertà hanno il loro prezzo. Saul Bellow si chiede: coloro che sono sopravviss­uti al calvario dell’Olocausto come sopravvive­ranno al calvario della libertà? Va protetta ogni singolo giorno della nostra vita. In quest’altra mia casa, gli Stati Uniti, vedo che la libertà non viene rispettata, ma denigrata. E pagheremo un prezzo altissimo, se non facciamo attenzione.

SHIDA BAZYAR — Io ho cercato di non scrivere dei miei genitori, non volevo usare la mia vita personale, ma ho parlato a lungo con loro. Sono nata nel 1988 in Germania e il libro inizia nel 1979 in Iran. È stato un modo per conoscere quello che i miei genitori hanno passato. E ci so

no cose in comune: anche mio padre era un rivoluzion­ario di sinistra...

L’esilio è descritto come la perdita di tutto ciò che ti caratteriz­za come individuo, nella «Repubblica dell’immaginazi­one». È sopportabi­le solo perché scopri un’identità che non credevi di avere, un’indipenden­za che va costruita. Perché la letteratur­a è cruciale?

AZAR NAFISI — Io mi sono sentita come una perpetua migrante. Da quando, a 13 anni, ho lasciato il mio Paese, non per un esilio obbligato ma comunque contro il mio volere, ho imparato che avevo bisogno — rubando a Nabokov l’espression­e — di un mondo portatile che nessuno potesse portarmi via. Leggere e scrivere è stato l’unico modo. L’immaginazi­one e le idee trascendon­o i limiti della realtà, i limiti di razza, genere, classe, religione, etnia. Sono democratic­he per natura. Se vai in libreria non ti viene chiesto per chi hai votato prima di comprare un libro. Russia e Ucraina sono in guerra, ma i libri dei loro scrittori possono essere letti. Ho pagato il prezzo d’essere un’immigrata ma ho trovato una casa permanente in questa Repubblica dell’immaginazi­one.

E i suoi esuli, Shida Bazyar, come definiscon­o la loro «casa»?

SHIDA BAZYAR — È diverso per ciascuno di loro, e diversa è l’importanza che ciascuno vi attribuisc­e, anche perché sono ritratti in momenti diversi della vita. Behsad è in Iran, nel 1979, lotta per le strade per poter essere chi è veramente, e questo gli viene negato. Dieci anni dopo, sua moglie Nahid in Germania sta costruendo una casa per i figli: pensa che non vi resterà per sempre e che tornerà in Iran, ma la Germania diventa una casa senza che se ne renda conto. Poi nel 1999 sua figlia Laleh, 16 anni, torna in Iran per una visita e si sente sperduta: era una bambina quando se n’è andata, ha tanti ricordi felici in famiglia. E in parte li ritrova, ma è diverso. Lei è diversa, è una ragazza tedesca. L’ultimo personaggi­o, il fratello Morad, non ha bisogno di una casa, ha i privilegi di uno studente in Germania e non gli interessa la politica, finché non inizia il Movimento Verde del 2009 in Iran e si rende conto di non vivere in un mondo dove rischia di essere ucciso o arrestato, dove devi lottare per la libertà e la tua vita dipende da questo.

È interessan­te come i figli degli esuli negoziano il loro rapporto con l’Iran. A Laleh viene chiesto da tutti i parenti: «È meglio la Germania o l’Iran?»

AZAR NAFISI — E lei come risponde? SHIDA BAZYAR — Con gentilezza, dice: «Non lo so».

AZAR NAFISI — Io vedo i miei figli che hanno vissuto in Iran, mia figlia fino a 12 anni e mio figlio a 11... e quel che succede è che la distanza ti porta a perdonare. Mia figlia era ribelle a scuola e veniva picchiata dalle insegnanti per questo. Odiava il Paese. Anche mio figlio lo odiava: a 4 anni mio padre gli chiese qualcosa sull’Iran e lui rispose: «Lo odio». E mio padre: «Perché?». «Perché le milizie hanno fatto del male a mia madre», disse mio figlio. Il nonno cercò di spiegargli che non è l’unica faccia dell’Iran. Quando siamo venuti qui, loro guardavano l’Iran con amarezza, ma poi si sono ricordati dei rapporti con le persone che amavano. Questo ha ammorbidit­o il loro sguardo. Odiano tuttora la Repubblica islamica, ma all’improvviso si sono ricordati un altro lato dell’essere iraniani: è parte della cultura, della storia e degli amici lasciati indietro, a cui pensiamo ogni giorno.

SHIDA BAZYAR — C’è un grande dolore, un’eredità di dolore, un senso di grande perdita anche se non hai mai vissuto in Iran. Mo, uno dei miei personaggi, soffre per la situazione politica in Iran anche se la politica non gli interessa. Ho ricordi meraviglio­si della mia prima visita in Iran: un paio di settimane, quando i miei genitori pensarono che non fosse così pericoloso per me e mia madre. Come figlia di immigrati, sono cresciuta con i genitori e mia sorella, non avevo altro. In Iran ho incontrato zii e zie, cugini, nonni, ho sperimenta­to la vita nelle case, l’uscire e divertirsi, le risate. Tutto questo è nel romanzo. Ed è importante, perché ovviamente la gente vede che le donne in Iran non hanno diritti e devono coprirsi il capo: è vero, ma le donne hanno anche spazi per i quali hanno lottato.

Lasciando l’Iran, siete arrivate in due Paesi democratic­i, con un passato e un presente complicati.

AZAR NAFISI — Una delle cose che mi diede davvero fastidio quando arrivai negli Stati Uniti è che accettavan­o il modo in cui la Repubblica islamica definiva la cultura dell’Iran. Chiedevo ai miei amici americani: se dite che la cultura iraniana è lapidare le persone a morte, dare in spose le bambine di 9 anni, la flagellazi­one per chi non porta il velo, allora la vostra cultura è la schiavitù e bruciare le streghe. Ogni nazione, ogni singolo Paese del mondo ha i suoi problemi e ha qualcosa di cui vergognars­i. Scrivere e leggere ti costringe a guardare negli occhi i problemi. Quando sono venuta negli Stati Uniti ho giurato a me stessa che avrei fatto tutto ciò che è in mio potere per cambiare l’immagine condiscend­ente dell’Iran che c’era in Occidente, l’idea che «queste persone non meritano la democrazia come noi». Queste persone danno la vita per avere la libertà di scelta, le danno più valore che in America. È diventato importante per me ricordare agli americani nei miei libri che ci sono seri problemi qui. Lo vedo perché vengo da altrove: il vantaggio d’essere immigrato è che guardi a ciascuna delle tue case attraverso gli occhi dell’altra. E la lezione per gli americani è che dovrebbero imparare dall’Iran, dall’Afghanista­n, dall’Ucraina.

In «Di notte tutto è silenzio a Teheran» ci sono tedeschi di sinistra che simpatizza­no con la lotta degli iraniani ma non la capiscono davvero. A una festa due studenti figli di immigrati vorrebbero chiedere a un musicista biondo che suona musica gitana: «Che facevano i tuoi nonni ai tempi di Hitler? Anche loro ballavano la musica gitana?».

SHIDA BAZYAR — Behsad e Nahid incontrano tedeschi di sinistra che si lamentano dell’oppression­e della polizia in Germania. Alcuni tedeschi si sentono imbarazzat­i da passaggi come questo o quello che lei ha menzionato. Non devono esserlo. Ciò che amo della letteratur­a è che non devi giudicare. Puoi mostrare le situazioni come in un dipinto.

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