Corriere della Sera - La Lettura
Il respiro di Boccioni prepara il Futurismo
Alla Fondazione Magnani-Rocca, in provincia di Parma, le prove di una ricerca che ambisce a incanalare l’energia del primo Novecento. Lavori che riflettono una crisi di valori destinata a produrre una formidabile esplosione di creatività
Non è il Futurismo a fare Boccioni; è Boccioni, con i suoi compagni di strada, a fare il Futurismo. Se anche non avesse incontrato Filippo Tommaso Marinetti, sarebbe stato un grande artista: un artista totale, pittore, scultore, incisore, grafico pubblicitario e persino critico d’arte. Lo conferma la mostra alla Fondazione Magnani Rocca nella sede di Mamiano di Traversetolo presso Parma, che ricostruisce la sua formazione in tre sezioni dedicate ad alcune delle sue città: Roma, Venezia, Milano. Prima del Futurismo.
Umberto Boccioni narra l’epopea della sua generazione, la prima del Novecento, di cui è interprete autentico e contradditorio: vuole incanalare l’energia del secolo appena iniziato, che richiede un racconto nuovo. La mostra sembra ruotare intorno all’Autoritratto con colbacco (dalla Pinacoteca di Brera); perché le opere di Boccioni ci svelano molto non soltanto sui soggetti — oltre a sé stesso, la madre Cecilia, la sorella Amelia, la fidanzata Ines — ma anche sui luoghi.
L’Autoritratto è il punto di svolta: c’è già la periferia, con i cantieri delle case in costruzione, quasi un presagio de La città sale. Eppure, Boccioni concentra l’attenzione sulla propria individualità, d’uomo e d’artista. Interroga, invita a osservare alle sue spalle, dove abbozza la modernità. Il suo è lo sguardo di chi cerca. Non a caso il dipinto apparteneva a Vico Baer, l’amico più giovane che meglio di ogni altro ne aveva colto il talento.
A Roma nei primissimi anni del Novecento Boccioni ha già incontrato i suoi compagni di strada: Giacomo Balla, Gino Severini, Mario Sironi, i poeti crepuscolari e l’anarchico Colin. Ha dipinto La signora Virginia (in mostra dal Museo del
Novecento), la tela che ha voluto con sé a Milano. Balla lo invita alla rassegna annuale della Società amatori e Cultori, ma Boccioni a sua volta promuove una mostra parallela «dei rifiutati» nel Foyer del teatro Nazionale (ricostruita alla Fondazione Magnani Rocca da Francesco Parisi).
A Venezia Umberto Boccioni frequenta la biblioteca Querini Stampalia, ascolta concerti nelle chiese, visita musei e le Biennali del 1905 e del 1907 (studiate da Virginia Baradel), convinto che la modernità porti con sé una crisi di valori: ciò che ieri sembrava nuovo oggi appare vecchio. Medita di trasferirsi a Milano, da cui si lascerà conquistare e dove sceglierà di vivere e realizzare i suoi capolavori. Prima però visita lo studio di Alessandro Zezzos, vecchio incisore che lo inizia ai misteri dell’acido nitrico, dell’asfalto, della cera vergine: materiali da fondere insieme a fuoco lento. Boccioni crede d’esser finito nel laboratorio di un alchimista e alimenta già qui la sua ossessione per la materia.
Una delle novità della mostra riguarda Milano. Niccolò D’Agati, il curatore della sezione, inquadra sfondi urbani e interni con figure di Boccioni nell’iconografia del Divisionismo lombardo, e conferma che lo scarto stilistico verso una pittura più libera dal dettaglio passa anche dalla cultura visiva delle stampe pubblicitarie. Già a Roma Boccioni ha intuito che la storia si fa sui giornali per cui lui vorrebbe scrivere; ma sull’«Avanti della domenica» non pubblica che qualche grafica di copertina. E per uno stampatore realizza cartoline con danze ciociare, cacce alla volpe e corse di cavalli: un lavoro che trova poco gratificante. Ma la grafica, come per altri artisti d’avanguardia, è il nuovo nell’arte europea. Boccioni intuisce che la modernità non viene dalla saggezza ma dalla ricerca, dalla consapevolezza della mancanza di conoscenza. Lui sa di non conoscere, e si mette a cercare.
A Milano sarà ancora la grafica a far crescere in lui il racconto dell’epoca futurista e già fin d’ora è sua madre il soggetto preferito. È Cecilia a posare per lui per lunghe ore senza capire all’inizio cosa sta facendo suo figlio. In mostra vediamo ritratti dove Boccioni ne coglie il volto nei minimi dettagli, o la schiena nuda, che diventa tavolozza per sperimentazioni di luce e colore; e ancora la madre torna in Le tre donne, con la sorella dell’artista, Amelia, e la fidanzata Ines. Prima dell’esplosione futurista è ancora il mondo della sperimentazione grafica a tessere le fila della sua formazione — modernissima — da cui viene il respiro universale che riconosciamo in lui. Boccioni lavora per il Touring — nato da poco per una borghesia che ama la velocità e il viaggio — e realizza affiches e manifesti in una Milano che cresce ed è una delle tappe del Grand Tour.
Ma non è solo una fonte di guadagno; muta il suo stile. Quando Boccioni ritrae La signora Massimino (l’algida moglie di Innocenzo, l’editore del Touring) non trapelano i «voli dell’anima» che vuol dipingere. L’autore non riesce a coglierne il temperamento. Dalla finestra irrompe la quotidianità con il fluire degli eventi: il cavallo con il carro, persone di corsa, pareti di case dalla prospettiva inclinata. Non è ancora il momento per la poetica degli Stati d’animo, una delle fasi più interessanti e controverse della sua ricerca. Al diario Umberto confida l’insoddisfazione per il risultato e la gioia d’esser riuscito con il ricavato del ritratto a comprarsi finalmente un torchio tutto suo.
Mancano due anni a La città sale ,il «telone» di due metri per tre in cui Boccioni consuma una lotta con la pittura, in cui porterà a termine quanto ha cominciato a sperimentare con Crepuscolo (qui esposto con Il Sogno): il moto d’ombre nella luce fioca tra il rosso del tramonto e il chiarore delle lampade ad arco. In queste opere, colore e segno grafico si sciolgono nella pittura che scorre fluida. Poi Boccioni si ferma. Medita su di sé e sull’esortazione di Segantini a «un disegno che esprima un’idea, una linea che esprime un pensiero, un colore che dà vita e luce al colore». Quando Umberto riprende a dipingere è pronto per la nuova avventura, la pittura liberata dagli «oggetti che l’hanno suscitata». È la «consapevolezza che si fa affermazione di una conquista» — come scrive D’Agati —. «Boccioni si riferisce al dipinto su cui medita da quattro anni: La città sale». Il capolavoro ammirato nel mondo. Nessuno come lui aveva ancora concepito in pittura una tale idea epica della città moderna.