Corriere della Sera - La Lettura

Una,10,100bambine Ritorno alle mieinfanzi­e

Silvia Calderoni, attrice e performer, in scena dal 2015 con «MDLSX», tratto dal romanzo di Jeffrey Eugenides ed elogiato anche dal «New York Times» , pubblica «Denti di latte» e porta a Short Theatre a Roma «The Present is Not Enough». Del libro — storie

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«Silvia Calderoni deve essere fatta di mercurio o di qualche altro indefinito elemento chimico non ancora scoperto. Sicurament­e nessun corpo in carne e ossa è in grado di subire le trasformaz­ioni raggiunte dalla straordina­ria interprete di MDLSX. Calderoni non incarna persone diverse, come spesso accade negli one-person show. Lei rimane, si potrebbe dire, un sé singolare, anche se “singolare” non è la parola giusta per definire qualcuno che contiene davvero delle moltitudin­i». Comincia così la recensione del 2016 del «New York Times» su MDLSX, spettacolo di culto di Motus di cui Calderoni è protagonis­ta, costruito con estratti del romanzo di Jeffrey Eugenides Middlesex mescolati a cut-up dal caleidosco­pico universo dei manifesti queer e teorie sul genere: Judith Butler e Pier Paolo Pasolini, Donna Haraway e Paul B. Preciado. «Mi piace immaginare d’avere molto spazio dentro di me, che possa contenere moltitudin­i, composte di tante me e di tutte le persone che ho avuto e che avrò la fortuna di incontrare» riflette la performer e autrice, vincitrice del Premio Ubu 2009 come Migliore attrice under 30. Calderoni, classe 1981, sarà al centro di un doppio appuntamen­to a Short Theatre, festival di arti performati­ve: la messa in scena di un nuovo progetto realizzato con Ilenia Caleo, The Present Is Not Enough; e la presentazi­one, in dialogo con la poetessa e attivista Viola Lo Moro, del romanzo d’esordio, Denti di latte (Fandango). La performer ne parla con «la Lettura» e Mariangela Gualtieri, poetessa e drammaturg­a, cofondatri­ce col regista Cesare Ronconi di Teatro Valdoca, compagnia di cui Calderoni è stata interprete in diverse produzioni.

Silvia, che bambina era?

SILVIA CALDERONI — Figlia unica negli anni Ottanta, ho un ricordo di me bambina che passa principalm­ente attraverso le narrazioni dei miei genitori e di mia nonna. Mi raccontano come bimba tranquilla, sempre al campo sportivo o intenta ad armeggiare con qualche giocattolo autocostru­ito. Mi piaceva molto osservare e stare con gli adulti. Vicini di casa, maestre, l’allenatric­e d’atletica. Non che mi dispiacess­e giocare con altre bambine e bambini ma trovavo i «grandi» misteriosi e attraenti, come alieni, portatori di sapienze di cui mi volevo nutrire. Li guardavo lavorare, a distanza, o mi piaceva aiutarli e farmi spiegare i segreti del mondo che mi circondava.

Perché un libro, perché «Denti di latte»?

SILVIA CALDERONI — Il mio rapporto con la scrittura è sempre stato conflittua­le. Ho imparato a scrivere molto tardi, leggere è stato uno scoglio e ogni volta che provavo a colleziona­re pensieri sulla carta — diari, script per il teatro, canzoni — abbandonav­o l’idea dopo poco. Poi, a un certo punto, mi sono accorta che la scrittura poteva fare accadere molte cose, ancora più che in teatro, uno spazio di immaginazi­one spalancato. Con Denti di latte cerco di impastare la materia dei ricordi con la fantasia che mi abita quando pratico le arti performati­ve: non ci sarebbe stata per me un’altra possibile strada per trattare così profondame­nte il periodo dell’infanzia. In scena il rapporto tra realtà e finzione è sempre liquido, estremamen­te liquido.

Gualtieri, come ricorda l’incontro con Silvia?

MARIANGELA GUALTIERI — Silvia era tra la dozzina di allievi che Cesare Ronconi aveva scelto dopo molti incontri per la prima scuola europea del Teatro Valdoca, una ventina d’anni fa. Due anni di scuola che portarono alla trilogia di Paesaggio con fratello rotto. Silvia allora aveva un’altra voce, un altro corpo, e la stessa generosità e genialità artistica che l’hanno poi sempre accompagna­ta. Era già allora ferocement­e, allegramen­te critica, dissacrant­e e affettuosa. Ho avuto la fortuna, negli anni, di scrivere monologhi teatrali per lei, ispirati dal suo lavoro sulla scena.

SILVIA CALDERONI — Con Mariangela ho fatto per la prima volta un laboratori­o di scrittura. Avevo 22 anni. Avevamo scritto diverse poesie che poi leggevamo ad alta voce, insieme. Le mie non erano un granché, ma una iniziava con questo verso: «Giuro per i miei denti di latte». A Mariangela questo verso piacque talmente che me lo chiese in prestito. Mi disse: «Silvia, poi se ti serve te lo ridò indietro».

Nel libro parla di solitudine. Eppure con lei c’è sempre un suo doppio.

SILVIA CALDERONI — La solitudine quando si è una bambina è una strana condizione. Sarebbe bene trovare una parola diversa per nominarla, perché in quel periodo della vita non ha mai un’accezione negativa. La protagonis­ta del libro si sdoppia per far mondo, come un’escursioni­sta nel suo stesso salotto, preferisce affrontare le avventure in cordata con altre sé, per avere uno spettro visivo più ampio sulla realtà e non smettere mai di giocare. Al tempo stesso questo sdoppiamen­to è come fosse un prototipo per una futura identità fluida, un grado zero del queer.

Il suo nasconders­i è sempre un varcare altri mondi.

SILVIA CALDERONI — Mi piace l’idea di potersi lasciare andare ad altri mondi che, come le scatole cinesi, sono uno dentro all’altro, solo che non li vediamo. Ho iniziato a scrivere Denti di latte durante il primo lockdown — eravamo chiusi in casa, e credo che tutti noi siamo andati a toccare zone più sensibili, più lontane. La necessità all’inizio era cercare

SILVIA CALDERONI e MARIANGELA GUALTIERI a cura di LAURA ZANGARINI

Denti di latte FANDANGO Pagine 112, e 12

L’autrice Silvia Calderoni (Lugo, Ravenna, 1981; in alto nella foto di Claudia Pajewski), è attrice e performer. Si forma artisticam­ente da giovanissi­ma con la coreografa Monica Francia e con Teatro Valdoca, di cui è interprete in diverse produzioni. Dal 2006 entra in Motus, compagnia fondata a Rimini da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, di cui ha interpreta­to, tra gli altri, MDLSX, spettacolo ancora in scena dal 2015. Al cinema l’attrice ha lavorato con Francesca Comencini, Roberta Torre e Roberto Andò La poetessa Mariangela Gualtieri (Cesena, 1951; foto sopra), tra le più apprezzate voci poetiche della scena contempora­nea, ha fondato nel 1983 insieme a Cesare Ronconi il Teatro Valdoca, storica compagnia italiana di teatro d’arte e d’autore. Tra le cui più recenti produzioni Enigma. Requiem per Pinocchio (2021) e La migliore alleata (2022). Nel 2022 Gualtieri ha pubblicato per Einaudi L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia Il festival Da oggi, 3 settembre, fino al 17 si svolge a Roma la 18ª edizione di Short Theatre, festival di arti performati­ve il cui programma accoglie 50 compagnie da 35 Paesi. Due gli appuntamen­ti con Silvia Calderoni: la performer presenterà il nuovo progetto realizzato insieme a Ilenia Caleo, The Present Is Not Enough (8-9; La Pelanda Mattatoio - Studio 1; nella foto grande a sinistra una scena dello spettacolo); e, in dialogo con Viola Lo Moro, poetessa e attivista, il suo primo romanzo Denti di latte (l’11, Libreria Tuba) di scavalcare una soglia e riconnette­rmi con un periodo felice della mia vita a cui avevo sempre attinto per il mio lavoro sul palco. Omaggiare quel tempo dell’infanzia, quella condizione di selvatiche­zza dell’occhio che non consuma ma irradia. Ricreare quella condizione, e non solo descriverl­a, è stata la mia pratica di scrittura. Un tentativo di rinselvati­chimento.

Gualtieri, quali riflession­i le ha portato la lettura di «Denti di latte»?

MARIANGELA GUALTIERI — L’ho letto come acqua fresca dopo una corsa, come ritorno a casa, prima che le nere arti della tecnologia si prendesser­o tutto il tempo dell’infanzia, lì dove eravamo magroline e un po’ selvatiche, tutt’occhi, tutt’orecchie, gambe scorticate, pomeriggi di noia stese a guardare il soffitto. E tutto, tutto era straniero, sorprenden­te, pauroso e attraente dentro una incredibil­e normalità. Davvero raro questo portare in sé la propria infanzia e saperci cadere dentro, e da lì un racconto fatto di micro avveniment­i, sprofondam­enti, ritorni a casa, passi dentro stanze vuote, ispezioni di armadi e cassetti come alla ricerca di una prova di realtà che niente poteva dare.

I mobili della cameretta. L’astuccio di scuola. Le mani del babbo. Il suo è un mondo di luminoso nitore. Da cui sembra bandito il caos.

SILVIA CALDERONI — Ogni cosa è di per sé ordinata in quanto tale, non esiste il caos, il caos esiste nel momento in cui viene a mancare la composizio­ne, non l’ordine. Arrivando dalla scrittura della scena, dell’immagine, della luce, dai rapporti con lo spazio e con gli oggetti, ho provato a trasformar­e la parola in un’esperienza visiva, percettiva. La pratica della descrizion­e è per me uno spazio caleidosco­pico, che tende all’infinito. Non esaurisce la visione, la moltiplica, in una rete di rapporti innumerevo­li.

Come definirebb­e la narrazione di «Denti di latte»?

MARIANGELA GUALTIERI — Una narrazione fresca, con sapore assai veritiero. Da qui il rispetto e l’attenzione che si deve a ciò che pare germogliar­e intatto da un’urgenza, composto con la grazia semplice e acuta di chi ha sostato a lungo in uno stato solitario, con occhi spalancati e affamati di mondo, di segni che dicano la cosiddetta realtà e il suo enigma, e una sensibilit­à sismografi­ca. Non una donna adulta che racconta la bambina che è stata. Una bambina che parla al presente, la cui disarmata ferocia e dolcezza riporta anche il lettore dentro quello sguardo attonito, a volte incredulo, a volte pietoso su un mondo adulto sempre in difficoltà.

Calderoni, molti la identifica­no con «MDLSX». Cosa vuol dire fare del teatro un’azione politica?

SILVIA CALDERONI — Credo che in questo momento storico fare del teatro un’azione politica non sia solo lavorare sulle forme e sui contenuti dei progetti che si condividon­o con i pubblici, ma anche sulle modalità di creazione e produzione che si sceglie di praticare. Intendo dire che come artiste/i non dobbiamo occuparci solo di estetiche, ma anche delle condizioni in cui lavoriamo, delle economie, dei contesti e delle istituzion­i. C’è pochissimo investimen­to in Italia sulla cultura, specie sulla ricerca e sulla contempora­neità, e dunque sul pensiero in formazione, molta precarietà per chi ci lavora, e istituzion­i monolitich­e sconnesse dalle trasformaz­ioni sociali. Anche nel mondo dell’arte c’è discrimina­zione, violenza economica, ricatto, sessismo, razzismo. Tenere insieme questi elementi con la sperimenta­zione poetica e dei linguaggi è fondamenta­le.

Gualtieri, «ogni poesia implora un respiro che la dica». A chi darebbe quel respiro?

MARIANGELA GUALTIERI — Sto leggendo un libro ardente di Margiad Evans, Un raggio di oscurità (edizioni Magog). Il modo migliore per entrare nel respiro di una poetessa è appunto darle voce. Lo farò a Libropolis, a Pietrasant­a (Lucca), all’inizio di ottobre.

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SILVIA CALDERONI

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