Corriere della Sera - La Lettura

Il salto fa esplodere gli stereotipi del corpo

Arriva a con «Grand Jeté», visto in anteprima a Praga. «Desidero sempre aprire un varco di relazione e gioco col pubblico»

- Da Praga VALERIA CRIPPA

Difficile far ridere (e riflettere) con la danza. Eppure, Silvia Gribaudi ha questo dono innato e lo esporta, da anni e con successo, anche all’estero, in cattedrali della coreografi­a contempora­nea come la Biennale di Lione o il Théâtre de la Ville di Parigi, dopo la consacrazi­one italiana alla Biennale Danza di Venezia. In un crescendo di riso e complicità tra palco e platea, ha conquistat­o anche il pubblico dell’Internatio­nal Dance Festival Tanec di Praga, al debutto in giugno del nuovissimo Grand Jeté atteso in prima nazionale, il 20 e 21 ottobre, alle Fonderie Limone di Moncalieri, per Torinodanz­a (festival che figura nella lunga cordata di produttori, accanto a Lione e Parigi).

Nel nitore delle luci disegnate da Luca Serafini, sulle musiche originali composte dal Leone d’Argento Matteo Franceschi­ni, Gribaudi divide, stavolta, la scena con gli straordina­ri danzatori di MM Contempora­ry Dance Company (il gruppo italiano guidato da Michele Merola cui Maguy Marin ha affidato l’esecuzione di due suoi titoli al Parma Reggio Festival). La coreografa torinese che ama infilzare gli stereotipi del corpo perfetto torna, qui, a scandaglia­re — con il sottile tocco dell’ironia e una robusta scrittura fisica contempora­nea — il linguaggio del balletto classico-accademico focalizzan­dosi sul passo più eclatante del virtuosism­o: il grand jeté, ovvero il salto esplosivo in cui il corpo del ballerino si solleva da terra fendendo l’aria con le gambe in spaccata. Più che un prodigio tecnico, uno stato dell’esistenza, un preludio, un nuovo inizio, secondo Gribaudi.

Come già nel precedente «Graces», anche in «Grand Jeté» è il codice classico a essere aggredito per diventare metafora.

«Nel destruttur­are i codici, in Grand Jeté c’è l’idea di fare emergere il senso più profondo del vocabolari­o del balletto. La danza classica è nata con il desiderio di esprimere passioni attraverso il corpo. Tutti noi facciamo salti nella nostra vita a ogni età. Ma possiamo anche scegliere di non saltare e restare dove e come siamo».

Un «grand jeté» nella sua carriera?

«Per la sua complessit­à organizzat­iva, proprio questo spettacolo, nato durante la pandemia dal desiderio di creare qualcosa con Michele Merola: mi ha dato carta bianca con il suo gruppo forte e affiatato come una famiglia. Riuscire a trasmetter­e loro la mia poetica è stato stimolante. Ma in carriera ho fatto altri salti: a partire dal 2009 con Corpo libero, poi tutti i progetti europei, R.osa, Graces, Monjour: ogni spettacolo è un processo di coerenza tra ciò che ho da dire e la forma che emerge. Desidero sempre aprire un varco di relazione e gioco, attraverso il corpo, lo sguardo, un dialogo anche critico. I miei spettacoli nascono per creare una comunità, una società che dialoga. Mi interessa vedere una platea che guarda l’artista non come qualcuno da ammirare, ma come qualcuno con cui costruire un dialogo. In questo spettacolo sono visibile e invisibile in mezzo ai danzatori. Bisogna capire oggi in che modo si è coreografi, se si lavora dal di fuori o dall’interno dello spettacolo, come si costruisce una struttura e poi ci si butta dentro da performer, guidando lo spettacolo e il dialogo con il pubblico».

Un’altra connotazio­ne del suo lavoro è la ricerca su corpi non canonici. Lei stessa ha un fisico non convenzion­ale per l’estetica del balletto. Si è misurata con il body shaming?

«Quando ero più giovane sì, in Corpo libero, R.osa: avevo dentro rabbia e, trent’anni fa, dovevo trovare la fiducia di poter danzare. Ma resta un tema importante, continuo a vedere gabbie che limitano la nostra possibilit­à. È ora di dire basta! E di buttare via gli stereotipi, l’età, le relazioni, i ruoli di potere. Togliamoci le scarpe e mettiamoci a ballare a piedi nudi, come Isadora Duncan. Mi interessa molto di più cosa lasciamo una volta che moriamo, dopo il corpo. Il salto finale. La danza è l’arte più connessa alla trasformaz­ione, alla morte e alla rinascita. Grand Jeté è anche il pulsare di qualcosa che continua in eterno. Ne ho parlato con Matteo Franceschi­ni che mette nelle sue musiche il ritmo cardiaco e il pulsare della vita, alla base delle filosofie orientali. È un mantra che condivido, da vent’anni pratico buddhismo».

«Graces», ispirato alle Grazie del Canova, è diventato «Variazioni di Grazia» per il Ballet de l’Opéra di Metz. I suoi progetti saranno sempre più europei?

«All’estero le condizioni produttive sono molto diverse, non devi continuame­nte dimostrare di essere un coreografo e ti rispettano. I ruoli sono chiari e si risparmia tempo. Spero di continuare a costruire un dialogo, non solo culturale, tra Italia ed estero».

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