Corriere della Sera - La Lettura

Anche sole e cielo lottano per i diritti dei popoli

Una storia di resistenza in Colombia; una storia di resistenza (e di migrazione, e di esilio, e di accoglienz­a) tra l’Afghanista­n e l’Abbazia di Mirasole, Opera, Milano. Sono due documentar­i attesi al nono appuntamen­to di Visioni dal Mondo, nel capoluogo

- Di CECILIA BRESSANELL­I

«Resistiamo fino a che il sole muore», dice un antico detto Nasa, popolazion­e indigena colombiana. «Ma il sole non muore mai». Il regista tedesco Jonas Brander (classe 1986) da quel detto ha preso il titolo del documentar­io che ha girato in Colombia: Until the Sun Dies. Racconta la resistenza del leader indigeno Albeiro Camayo e dell’attivista Luz Marina Bernal, che lotta per ottenere giustizia sulla morte del figlio, ucciso dall’esercito colombiano, insieme ad altri civili considerat­i guerriglie­ri.

A 9 mila chilometri da Bogotà, le mura della centenaria Abbazia di Mirasole (Opera, Milano) accolgono un’altra storia di resistenza, quella di Aziz Behrang e suo figlio Erfan, dodicenne disabile, sfuggiti dall’Afghanista­n con il resto della loro famiglia dopo la presa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021. Padre e figlio, e con loro l’abbazia, sono al centro di Il cielo è mio, documentar­io di Ayoub Naseri (Bokan, Kurdistan, Iran, 1980), rifugiato politico in Italia dal 2012.

I film di Jonas Brander e Ayoub Naseri sono due delle 38 anteprime presentate alla 9ª edizione di Visioni dal Mondo, festival internazio­nale del documentar­io fondato e diretto da Francesco Bizzarri con la direzione artistica di Maurizio Nichetti, che torna a Milano dal 14 al 17 settembre: 20 film del Concorso italiano (tra cui Il cielo è mio), 9 per il Concorso internazio­nale (qui è in gara Until the Sun Dies), ai quali si aggiungono eventi speciali, esperienze Vr, progetti in progress, tutti riuniti sotto il tema per il 2023: «Ascoltare con gli occhi».

Il documentar­io di Jonas Brander è una coproduzio­ne tra Germania e Colombia, «un progetto totalmente indipenden­te, nato nell’arco di sette anni dai lunghi dialoghi con i protagonis­ti», spiega il regista a «la Lettura»: «Dal 2014 vivo e lavoro in Colombia. Credo che molte risposte ai più pressanti problemi globali possano essere trovati in Paesi come questo, se solo ci si mettesse davvero in ascolto di coloro che da centinaia d’anni resistono a colonialis­mo e politiche capitalist­e. Volevo provare a imparare qualcosa dalla ricca conoscenza e storia di resistenza sociale e indigena della Colombia, dai loro modi di intendere la nostra relazione come esseri umani con la terra, con la comunità, con l’organizzaz­ione, il loro lottare per un altro futuro. Sono stato accolto a braccia aperte e in cambio ho cercato dei modi per contribuir­e alle loro battaglie attraverso quello che so fare: reggere una macchina da presa e raccontare storie».

Così Brander ha seguito le battaglie di Albeiro Camayo, che con la «Guardia indigena», unità di autodifesa non armata del popolo Nasa da lui coordinata con cui provava a difendere il territorio indigeno del Norte del Cauca, si è trovato sotto il fuoco incrociato del conflitto tra guerriglia e gruppi paramilita­ri, multinazio­nali e repression­e statale, fino alla morte avvenuta nel 2022, ucciso da dissidenti delle Farc. Dal 2016, l’attenzione si concentra sul processo di pace tra il governo colombiano e le Forze armate rivoluzion­arie ma, mostra il film, la violenza contro le popolazion­i indigene e i movimenti popolari nel Paese non è cessata. Dopo la scomparsa nel 2008 del figlio ventiseien­ne, Fair Leonardo Porras Bernal, Luz Marina Bernal da casalinga è diventata una delle più importanti attiviste colombiane, candidata al Nobel per la Pace nel 2016. Attraverso arte, teatro e lotte legali cerca verità e giustizia sulla morte del figlio e migliaia di civili (i cosidetti falsos positivos), rapiti e uccisi dall’esercito colombiano. «Albeiro e Luz Marina sono due grandi esempi. La resistenza è il cuore delle loro esistenze, non hanno mai accettato le ingiustizi­e e la violenza che loro e le loro comunità sono costrette a subire e hanno scelto di combattere per cambiare le cose, mettendo a rischio le loro vite. Questo è scolpito nell’identità della popolazion­e indigena Nasa, che è stata costretta a resistere fino dalla conquista spagnola nel Cinquecent­o».

«Non volevo fare un’inchiesta, ma raccontare il grande amore tra un padre e un figlio», così il regista curdo Ayoub Naseri spiega a «la Lettura» come è nato Il cielo è mio: «In parallelo alla mia attività profession­ale in ambito televisivo e cinematogr­afico, collaboro con diverse associazio­ni e cooperativ­e sociali in Lombardia come mediatore linguistic­o culturale, questo mi ha permesso di acquisire una conoscenza più approfondi­ta del fenomeno migratorio in Italia. L’avere vissuto in prima persona le difficoltà della migrazione, avere superato gli ostacoli alla ricostruzi­one di una nuova vita in un contesto inizialmen­te sconosciut­o e il sentirmi oggi integrato nella società e nella cultura italiana che mi ha accolto mi impongono l’obbligo morale di aiutare chi è ancora all’inizio di questo percorso complesso». Nel film — realizzato con il contributo dell’Unione buddhista italiana — si è concentrat­o sul «terzo capitolo della storia di immigrazio­ne, quello dell’accoglienz­a e dell’integrazio­ne. Ci sono racconti sulla fuga e il viaggio, ci si concentra su numeri e statistich­e, ma le storie individual­i dei rifugiati e dei contesti che li accolgono vengono solitament­e lasciate nell’ombra». Lavorando nei centri d’accoglienz­a straordina­ria (Cas), il regista ha seguito le vicende di decine di famiglie afghane accolte a Milano e altre città lombarde, tra loro la famiglia Behrang, evacuata nel corso dell’operazione Aquila Omnia, arrivata a Milano e accolta nell’Abbazia di Mirasole nell’agosto 2021.

Il padre, insegnante d’arte, affronta il dolore della separazion­e dal luogo in cui è nato, dipinge e si sforza di migliorare le condizioni di vita per i figli, in particolar­e per Erfan, sulla sedia a rotelle per una malattia neuromusco­lare genetica. Felice di essere in Italia, il ragazzino sogna una nuova vita. L’abbazia, che li ha accolti per i primi mesi, li avvolge con i canti ambrosiani, le preghiere che riescono a donare pace a una famiglia musulmana... «Volevo sottolinea­re il ruolo simbolico del luogo che accoglie nell’esperienza di migrazione, rappresent­are l’anima ospitale della società lombardo/milanese. Il dono della pace che l’abbazia emana ha contributo all’iniziale recupero psico-emotivo dopo la fuga».

Quella di Aziz e Erfan, agli occhi di Ayoub Naseri è una doppia prova di resistenza: «In primo luogo, la fuga in sé è stata un atto di resistenza: non hanno accettato la sottomissi­one, sacrifican­do tutto quello che hanno costruito negli anni e partendo verso lo sconosciut­o per non obbedire a un regime estremista. Ora che sono in Italia, la loro resistenza è essere pazienti davanti alla sofferenza, lottare dentro di sé per rimanere forti, impegnarsi nella ricostruzi­one della vita, tenere sempre accesa la fiamma della speranza davanti alle tempeste».

Lo dice Erfan nel film: «La novità è bella. La bellezza è sorprenden­te quanto terrifican­te».

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