Corriere della Sera - La Lettura
Due ergastoli e l’ultimo ricorso
Sono passati quasi cinquant’anni. Mezzo secolo, da quel 28 maggio 1974 in cui, alle 10.12 del mattino, durante una manifestazione antifascista in piazza della Loggia, a Brescia, esplose un ordigno piazzato nel cestino sotto il porticato, che uccise otto persone e ne ferì altre 102. E ancora, nelle aule di giustizia, magistrati e avvocati (di parte civile soprattutto) lavorano per tentare di aggiungere i tasselli di verità necessari a ricomporre la storia.
Le sentenze definitive hanno finora cristallizzato la matrice nera dell’eccidio, attribuita al movimento di estrema destra Ordine Nuovo. Sono state individuate le responsabilità certe di coloro che l’attentato l’avrebbero pianificato o non impedito: si tratta rispettivamente di Carlo Maria Maggi, medico mestrino che viveva alla Giudecca, allora referente di Ordine Nuovo nel Triveneto (morto il 26 dicembre 2018), e di Maurizio Tramonte, o «fonte Tritone» che dir si voglia, settantenne padovano ex infiltrato dei servizi segreti che nulla avrebbe fatto per impedire la strage. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo nel giugno 2017 dalla Cassazione, che ha confermato la sentenza emessa due anni prima dalla Corte d’assise d’appello (bis) di Milano, la quale aveva ribaltato il verdetto precedente. Ma la battaglia giudiziaria di Tramonte non è ancora finita. Il 5 ottobre scorso la Corte d’appello di Brescia ha rigettato la sua richiesta di revisione della sentenza di condanna. Per lui si trattava del sesto processo — il sedicesimo in generale — sull’attentato bresciano. Il prossimo 26 settembre la Cassazione discuterà il ricorso depositato dai difensori, secondo i quali Tramonte non solo non si sarebbe trovato in piazza la mattina dell’attentato, ma mai avrebbe partecipato alla riunione preparatoria della strage, il 25 maggio 1974, ad Abano Terme nella casa di Gian Gastone Romani, militante della destra veneta. Tra confessioni e ritrattazioni, Tramonte s’è sempre detto innocente.