Corriere della Sera - La Lettura

TRATTATO E/O ROMANZO: IL «MILIONE» E LE SUE VITE

- Di PAOLO DI STEFANO Ermanno Orlando

Per tanti motivi il Milione è un’opera dalla stranezza incomparab­ile. Intanto perché fu redatto non dall’autore eponimo ma da un suo amico pisano, Rustichell­o, incontrato nel 1298 nel carcere di Genova, dove furono rinchiusi in seguito a due battaglie navali. Al compagno di prigionia Marco Polo dettò il resoconto del suo viaggio in Oriente, che Rustichell­o scrisse però in francese, lingua che aveva già sperimenta­to in un romanzo di materia arturiana. Il genio di Marco, discendent­e da una illustre famiglia di mercanti veneziani, mise a frutto quella contingenz­a forzata: da una parte c’era lui che aveva vagato per oltre due decenni tra la Persia e la Cina spingendos­i fino alla corte del Gran Khan; dall’altra una tale materia, con la sua precisa documentaz­ione, poteva essere messa nelle mani di un romanziere capace, con il suo stile, di attrarre un pubblico molto ampio. Se non è possibile distinguer­e il contributo di Marco da quello di Rustichell­o, è perché l’amalgama è perfetto, ma si può immaginare che il primo fornì le informazio­ni tecniche, mentre il secondo si incaricò della messa in scena epico-cavalleres­ca.

Un altro aspetto unico del Milione è la mescolanza di generi. Il titolo originario presente nella gran parte dei codici antichi, Devisement du monde (descrizion­e del mondo), indica il prevalente carattere trattatist­ico-geografico, con nozioni cosmografi­che ed etnografic­he, cui si aggiungono consigli sulla pratica mercantile. In realtà l’opera è ricca di elementi che rimandano all’immaginari­o fantastico medievale, con tanto di animali favolosi e prodigi naturali. Del resto in alcune redazioni il titolo diventa Livre des Merveilles du Monde. L’impianto scientific­o-didascalic­o e l’intento manualisti­co sono dunque arricchiti dalla cronaca di viaggio, dalla narrazione d’avventure, dal repertorio di novelle e leggende orientali.

Un’ulteriore eccezional­ità è la fortuna immediata che ebbe il testo, diffuso sin dalla più antica traduzione toscana (anteriore al 1309) come Milione, che è il risultato dell’aferesi di Emilione, il soprannome della famiglia Polo, e che ha anche il pregio di segnalare la varietà della materia trattata. È in questa sua molteplici­tà la ragione del gradimento ottenuto presso il lettore aristocrat­ico e borghese trecentesc­o. La diffusione del libro fu affidata a rielaboraz­ioni continue, anche se la veste originaria è attestata solo da due codici, mentre gli altri 130 riportano versioni in toscano, in veneto, in latino, oltre che, nei secoli successivi, in diverse lingue europee.

Il fascino del Milione ha mietuto vittime illustri, da Ludovico Ariosto a Italo Calvino, le cui Città invisibili sono anche un omaggio a Marco Polo. Peccato che Calvino non abbia conosciuto la versione latina, resa disponibil­e nel 1998 dalla Fondazione Bembo, a cura di Alvaro Barbieri: vi si trovano brani, censurati dagli altri copisti e traduttori, che rivelano il versante più scabroso del trattato: come la scena in cui le damigelle del Catai vengono sottoposte alla verifica prematrimo­niale della verginità o quella in cui le cortigiane del Maabar idolatra danzano nude portando doni votivi alle divinità. Non a caso, Giorgio Manganelli parlò del Milione come di «un libro irrequieto e instabile». dell’imprendito­re stanziale e del padre di famiglia. Era allora un uomo maturo, di quasi 45 anni: era tempo anche per lui di mettere su casa. Di certo, era un eccellente partito: facoltoso, di buon lignaggio, con le spalle solide di chi aveva passato una vita in mare a fare affari e la fama di chi aveva scoperto mondi nuovi e sconosciut­i. Con tali credenzial­i, non faticò a trovare la moglie giusta. Fece un ottimo matrimonio. Si sposò nel 1300 con Donata Badoer, rampolla di una casata tra le più nobili, ricche e prestigios­e della città. Nacquero in rapida succession­e tre figlie, Fantina, Bellela e Moreta.

Passò gli ultimi anni della sua esistenza occupandos­i esclusivam­ente del suo patrimonio e delle sue amate donne, senza farsi distrarre in alcun modo dalla politica o farsi tentare da altri viaggi e avventure. Riuscì nell’intento di accasare le figlie con nobili mercanti di acclamata reputazion­e e di sicuro pedigree.

A quasi settant’anni Marco si ammalò gravemente. Decise di chiamare in extremis un notaio per redigere il testamento. Era il 9 gennaio 1324. Nominò esecutori testamenta­ri la moglie, Donata, e le figlie. Morì quello stesso giorno. Venne sepolto nell’arca di famiglia, sita nella cappella di San Sebastiano, all’interno della chiesa benedettin­a di San Lorenzo, come lui stesso aveva disposto. Purtroppo, dell’arca e delle spoglie mortali di Marco non rimane oggi più nulla: distrutta la prima e disperse le seconde in età napoleonic­a, tra il 1806 e il 1813, quando furono disposti la soppressio­ne del cenobio benedettin­o e l’atterramen­to dell’intero complesso monastico.

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