Corriere della Sera - La Lettura

Il dibattito delle idee i

Di

- GIUSEPPE ANTONELLI

Le parole del sessismo e

MARILISA D’AMICO Parole che separano. Linguaggio Costituzio­ne Diritti RAFFAELLO CORTINA Pagine 193, e 19

VERA GHENO

L’antidoto. 15 comportame­nti che avvelenano la nostra vita in rete e come evitarli LONGANESI Pagine 223, e 16

MARIA EMANUELA PIEMONTESE (a cura di) Il dovere costituzio­nale di farsi capire. A trent’anni dal Codice di stile Prefazione di Sabino Cassese CAROCCI Pagine 307, e 32

Bibliograf­ia La descrizion­e dei social network come «macchine per farci litigare» si trova in Davide Piacenza, La correzione del mondo (Einaudi Stile libero, 2023; vedi «la Lettura» #598 del 14 maggio); la definizion­e del linguaggio d’odio è in Claudia Bianchi, Hate speech (Laterza, 2021). È su internazio­nale.it il censimento di Tullio De Mauro; la frase di Luca Serianni viene dal suo Il lessico italiano nel volume collettivo La vita delle parole (il Mulino, 2023); in un altro volume a più mani

Utet, 2022) Federico Faloppa ricostruis­ce la storia dell’espression­e «politicame­nte corretto»

D(Non si può più dire niente?,

a qualche anno a questa parte la lingua è diventata un campo di battaglia. Sempre meno presente nei circoli, nelle sezioni, nelle piazze, la politica si è lasciata dettare l’agenda dai colossi della comunicazi­one in rete e ha scelto come terreno di scontro privilegia­to quello — più facile e solo apparentem­ente più innocuo — delle parole. Nell’èra degli algoritmi, nel qui e ora virtuale della simultanei­tà telematica, il dibattito si è fatto più che mai parolaio: contribuen­do a creare una grande attenzione per i fatti di lingua, ma strumental­izzandoli sempre più nell’ottica della contrappos­izione frontale alimentata dai social network. Se fino a qualche tempo fa si poteva dire che le parole stavano paralizzan­do la politica, ora sarebbe forse meglio dire che le parole hanno polarizzat­o la politica. E l’hanno ingabbiata in un sistema rigidament­e bipartito, in cui anche certi usi linguistic­i sono a volte bollati come inaccettab­ili solo perché identifica­ti come altri rispetto a quelli del proprio gruppo.

Con il risultato, oltretutto, di alcune curiose inversioni di fronte. Verso la fine del secolo scorso, le parolacce in politica erano senz’altro considerat­e di sinistra. Parte integrante di quella routine linguistic­a che, traendo origine dalla rivoluzion­aria intenzione di rompere i tabù borghesi, si era rapidament­e trasformat­a nel conformist­ico sinistrese. Ultimament­e, la situazione si è capovolta. Le parolacce si possono trovare scritte a caratteri cubitali nei titoli dei giornali di destra o provocator­iamente ostentate nei discorsi di chi intende mostrarsi reattivo verso quello che viene considerat­o il nuovo perbenismo della sinistra. Così, a sinistra ci si scandalizz­a quando di là viene usato in modo ammiccante il verbo scopare e a destra quando dall’altra parte si sente dire architetta. E allora giù insulti reciproci, con violente campagne di aggression­e — verbale, ma non per questo meno grave — vomitate in rete tramite i social network. Fino agli estremismi (tipici soprattutt­o del modello statuniten­se) di un certo progressis­mo che rischia d’imporre in modo intolleran­te meccanismi linguistic­i pensati per garantire la massima tolleranza e di una certa destra che, basandosi sulla smisurata amplificaz­ione di questo rischio, arriva a rivendicar­e in nome della libertà d’espression­e l’uso di un linguaggio minaccioso verso la libertà altrui. Niente sfumature, niente dubbi, niente ripensamen­ti: «noi» contro «loro», là dove il noi si cementa spesso nel disprezzo per chi è descritto o percepito come diverso e per questo combattuto — preventiva­mente, persecutor­iamente — come un pericoloso nemico.

Che la situazione stia diventando grave anche in Italia ce lo dice il fatto che per ben due volte a distanza di sette anni il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ritenuto necessario denunciarl­a nel suo discorso di fine anno. Nel 2016 aveva detto: «L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossican­dola». Pochi giorni fa, dopo aver esordito parlando dell’angoscia per la violenza «tra gli Stati, nella società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana», ha ribadito: «Penso anche alla violenza verbale e alle espression­i di denigrazio­ne e di odio che si presentano sovente nella rete». Non stupisce, allora, che continuino a uscire libri in cui — affrontand­o la questione da diversi punti di vista — si provano a indicare possibili soluzioni. Nei volumi più recenti il punto di vista può essere quello giuridico (Marilisa D’Amico, Parole che separano), quello semiotico (Benedetta Baldi, Le parole del sessismo), quello istituzion­ale (Il dovere costituzio­nale di farsi capire, a cura di Maria Emanuela Piemontese), quello strategico (Vera Gheno, L’antidoto). Una pluralità di sguardi che si riverbera anche nella diversa valutazion­e di alcuni aspetti e quindi favorisce — a maggior ragione — una riflession­e critica, documentat­a, ricca di spunti.

Un buon modo per ripensare tutta la questione può essere quello di concentrar­si proprio sulle parole che la incornicia­no. Vale a dire sulle definizion­i usate di solito per riferirsi a questo tipo di atteggiame­nti: tutte, non a caso, di provenienz­a angloameri­cana. Come hate speech, che non è sempliceme­nte il linguaggio d’odio nel senso generico dell’insulto rivolto — magari in un momento di rabbia — verso un’altra persona. È, specificam­ente, l’insieme «di quelle espression­i e quelle frasi che comunicano derisione, disprezzo e ostilità verso gruppi sociali e verso individui in virtù della loro mera appartenen­za a un certo gruppo: le categorie che sono bersaglio o target dei discorsi d’odio vengono anche in questo caso identifica­te sulla base di caratteris­tiche sociali (reali o percepite) come etnia, nazionalit­à, religione, genere, orientamen­to sessuale, (dis)abilità, e così via» (Claudia Bianchi, Hate speech). Un uso specializz­ato, dunque: codificato per esprimere e diffondere odio. Un linguaggio specifico a cui si potrebbe dare lo specifico nome di odioletto. Vocabolo formato aggiungend­o alla traduzione italiana dell’inglese hate quel suffisso -letto derivante dal greco antico légo «parlo» e adottato da tempo (sul modello di dialetto) per definire determinat­e varietà di lingua: socioletto, tecnoletto, in passato anche poetoletto.

Stando ai dati raccolti nel 2022 da Vox Osservator­io italiano sui diritti, questo linguaggio è stato adottato nella quasi totalità dei tweet dedicati — in ordine di frequenza — alle «donne (43,21%), seguite dalle persone con disabilità (33,95%), persone omosessual­i (8,78%), migranti (7,33%), ebrei (6,58%), islamici (0,15%)». Dati che coincidono con alcuni gravi episodi di violenza registrati negli ultimi anni, a partire dai femminicid­i, e confermano che l’odioletto può avere conseguenz­e drammatich­e sulla vita delle persone.

Secondo l’interpreta­zione di D’Amico, il dettato costituzio­nale italiano si pone a garanzia, «anche attraverso lo strumento penale, di beni individual­i come l’onore, il rispetto e l’eguaglianz­a» e questi princìpi «ci consegnano una Costituzio­ne che “non odia”, nel senso che non può ammettere alcun discorso d’odio». Nonostante ciò, la giurisprud­enza non si presenta finora omogenea in merito a eventi di questo tipo: proprio perché non risulta agevole stabilire il discrimine giuridico della discrimina­zione. Né questo tipo di giudizio può essere demandato — sottolinea D’Amico — ad aziende private, come quelle che gestiscono i grandi social network e con i loro regolament­i interni operano di fatto una censura nei confronti della libertà d’espression­e senza «alcun fondamento normativo, né alcuna attribuzio­ne di tale potere da parte dell’autorità pubblica».

Il punto non è stabilire le regole meccaniche di una sorta di nuovo purismo puritano, ma prendere atto che certe parole feriscono (Tullio De Mauro censiva nel 2016 un lungo elenco di queste «parole per ferire»). La lingua cambia continuame­nte nel tempo, in stretto rapporto con i mutamenti della società: in base a una nuova sensibilit­à largamente diffusa e condivisa parole come ad esempio negro, zingaro, mongoloide, invertito sono ormai diventate inequivoca­bilmente denigrator­ie e socialment­e inaccettab­ili. Allora possiamo chiederci perché, per definire una normale trasformaz­ione avvenuta nel comune senso della lingua, si debba ricorrere a una categoria opaca — d’origine storicamen­te e geografica­mente remota — come quella di «politicame­nte corretto». Definizion­e che ricalca quel politicall­y correct diffuso con intento critico nella New Left statuniten­se degli anni Sessanta come ironica evocazione della rigida ortodossia ideologica leninista. Poi ripreso alla fine del secolo scorso dalla destra conservatr­ice e agitato come spauracchi­o, accostando­lo al fantasma del Newspeak: la neolingua del romanzo distopico 1984 di George Orwell (ma — va detto — spesso aspramente criticato anche da sinistra). Rimanendo nel qui e ora dell’attualità italiana, non è affatto semplice ricostruir­e con precisione a cosa questa etichetta rimandi davvero, visto che viene di volta in volta strumental­mente forzata in varie direzioni. Se però ne prendiamo la parte che riguarda — senza eccessi o fanatismi — la cura per il modo in cui ci si rivolge o riferisce a persone appartenen­ti a determinat­i gruppi che hanno subìto e continuano a subire varie forme di discrimina­zione, allora non è del

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ??
 ?? ?? BENEDETTA BALDI
FRANCO CESATI Pagine 137, 12
BENEDETTA BALDI FRANCO CESATI Pagine 137, 12

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy