Corriere della Sera - La Lettura
La lingua dell’odio
Politicamente corretto
tutto chiaro cosa c’entri la politica. Se non nella sua accezione più alta e super partes: quella della convivenza civile all’interno di una comunità.
In questo quadro andrà inserita anche la discussione sul femminile dei nomi di professione. Un uso che non è — sarà bene sottolinearlo ancora una volta, per sottrarlo alle assurde etichettature ideologiche — né di sinistra né di destra. È il modo in cui la lingua prende atto di un cambiamento sociale. Cosa c’è di politico nel dire che un’ingegnera è un’ingegnera così come un’infermiera è un’infermiera (e non un infermiere), che una sindaca è una sindaca come una monaca è una monaca, che una ministra è una ministra come una maestra è una maestra? La desinenza cambia dal maschile al femminile secondo meccanismi che da sempre agiscono nella lingua italiana. Fermo restando che del femminile si è sentito il bisogno solo quando a quei ruoli hanno avuto accesso anche le donne.
Non è certo un caso che, a partire da parole come dottoressa, «tutti i termini femminili hanno avuto e hanno all’atto della loro comparsa una connotazione scherzosa o derisoria, specie se riguardano professioni e ruoli fino a quel momento di esclusivo appannaggio maschile» (Paola Villani nel volume curato da Piemontese).
Le parole sono diventate il campo di battaglia della politica, il «noi» contro «voi», e la categoria del appare inadeguata ad affrontare la questione. Meglio pensare a un uso civilmente responsabile o umanamente rispettoso dell’italiano, allora. Perché ciò che si verifica, come mostriamo in queste pagine, è una normalizzazione dell’aggressività
Come scriveva già nel 1957 Bruno Migliorini, «un termine nuovo spesso è giudicato brutto solo in quanto nuovo»: è solo questione di abitudine. Ovvero, come notava più di recente Luca Serianni commentando l’attardata dissimmetria tra gli alterati di donna (donnina, donnetta, donnaccia) e quelli di uomo (il solo ometto come bambino cresciuto): «La lingua cambia più lentamente del costume». Sempre nel volume curato da Piemontese, Anna Maria Thornton affronta i «problemi che si presentano a chi voglia redigere testi che non facciano apparire la pubblica amministrazione come “un mondo di uomini”». E, sulla base di alcune ricerche sperimentali, consiglia di preferire alcune soluzioni rispetto ad altre: ad esempio l’uso esteso di maschile e femminile( l’abbonato e l’abbonata) rispetto alla doppia desinenza (l’abbonato/a) o alla neutralizzazione (tramite soluzioni come le persone abbonate).
Su un altro piano si pone l’idea di superare la dicotomia dei generi ricorrendo all’asterisco (saluti a tutt* )o allo schwa (tutt )oallau( tuttu). L’esigenza di rappresentare anche le persone non binarie — molto sentita da una parte della società, specie tra le giovani generazioni — si trova a fare i conti con soluzioni che per varie ragioni appaiono difficilmente applicabili. Oltre al rischio paradossale di nascere col lodevole intento di rispettare le differenze, ma di finire con l’annullarle oscurando il genere. «L’intolleranza che anima il potere alternativo», scrive Baldi, «finisce per cancellare la dialettica paritaria tra i generi perseguita dal femminismo e la sua espressione linguistica».
Nell’etichetta politicamente corretto — però — a non funzionare non è solo l’avverbio, ma anche l’aggettivo. La correttezza rinvia infatti a un’idea normativa di lingua, in cui ogni alternativa a certi usi viene considerata come errore. E invece quello su cui si basa il rispetto reciproco non può essere che un equilibrio dinamico, costantemente aperto al dialogo. Meglio parlare, allora, di linguaggio civilmente responsabile o umanamente rispettoso. «Spesso, soprattutto online», osserva Gheno, «alla nostra aggressività non serve alcuna scusa: aggredire è più facile che cercare di spiegarsi». In questo caso, il relativo consiglio recita così: «L’odio esiste in ogni persona; impara a gestirlo in maniera da non fare e non farti male». Pensare di eliminare dal mondo l’odio vietando di usare qualche parola sarebbe come affermare che tramite un sussidio si è sconfitta la povertà. La questione non è proibire le parole, ma farne capire la portata, gli effetti: insegnare — fin dagli anni della scuola — il loro uso adeguato, nell’àmbito di un’idea più ampia di educazione linguistica, attenta anche alla testualità, alla pragmatica, alla dialettica. La soluzione non è cancellare, ma costruire una nuova consapevolezza e sensibilità.