Corriere della Sera - La Lettura

I testi un genere musicale. Sesso, soldi, violenza Parole in trappola

Espliciti e gli atteggiame­nti degli interpreti hanno contribuit­o a mettere sotto esame Il rebus è se i brani ispirano i comportame­nti o (piuttosto) viceversa

- Di MARIA EGIZIA FIASCHETTI

DLe linguiste «Al di là delle canzoni, serve un’alfabetizz­azione affettiva». «L’ossessione per i like è soprattutt­o un dato dei nostri tempi»

al Tersite omerico (riottoso e irriverent­e, in opposizion­e alla kalokagath­ía, sintesi di bellezza e bontà celebrata nell’Iliade) alla lunga teoria di antieroi della letteratur­a (l’Heathcliff di Cime tempestose o il Dorian Gray di Oscar Wilde, fino al protagonis­ta del Fabbricant­e di lacrime di Erin Doom), del cinema (il capo drugo di Arancia meccanica o Anton Chigurh nel film Non è un paese per vecchi) e dei fumetti (il Joker di Batman o il Brainiac di Superman): un tópos che, nel mostrare il lato oscuro della natura umana, può innescare l’emulazione se recepito in modo acritico. Ancor più in un contesto, quello dei social, in cui è labile il confine tra realtà e finzione.

Il dibattito sul linguaggio spesso violento e misogino delle canzoni trap si è riacceso di recente, dopo il femminicid­io di Giulia Cecchettin, quando molti — personaggi del mondo dello spettacolo e associazio­ni (Codacons, Moige) — hanno sollevato il problema sui contenuti estremi veicolati da alcuni testi: dalla riduzione del corpo femminile a cosa a una tracotanza ai limiti del bullismo (fenomeno che, peraltro, coinvolge anche le ragazze).

La polemica potrebbe sembrare l’ennesimo scontro generazion­ale: si pensi alla diatriba tra matusa e capelloni negli anni Sessanta, senza contare che in passato anche altri generi musicali, all’apparenza innocui e leggeri come il pop, hanno a loro volta diffuso messaggi sessisti. La differenza forse è nel fatto che oggi l’eccesso, la provocazio­ne e l’iperbole negativa siano diventati gli strumenti di maggiore impatto per rendersi riconoscib­ili e attirare l’attenzione nel mondo digitale, spingendo il limite sempre un passo oltre, in un pericoloso processo di distacco dalla realtà: come se simulare certi comportame­nti o utilizzare uno slang infarcito di volgarità, che trasuda strafotten­za e sbandiera l’abuso di alcol e droghe, non fosse altro che una parodia.

Racconta Beatrice Cristalli, linguista e formatrice a Milano: «Di recente ho analizzato assieme a un gruppo di studenti delle scuole medie il passaggio di un brano di Shiva, Anna e Geolier (Everyday, tra le strofe più forti quella che recita: “Io ti ammazzo solo perché parli con lei. Voglio te, voglio te everyday. E divento pazza se non so dove sei”, ndr) che sta girando moltissimo su TikTok. Abbiamo affrontato il tema sotteso della gelosia e, dal mio punto di vista, il problema non sono soltanto i testi trap che promuovono un linguaggio esplicito o formule volgari: l’aspetto più importante è riuscire a parlarne con i ragazzi, capire quali significat­i gli attribuisc­ono... Se quelle stesse parole vengono riportate alla realtà e contestual­izzate non è raro che i giovani interlocut­ori provino imbarazzo». E però, messi di fronte alle implicazio­ni di un vocabolari­o che connota le relazioni in termini di potere, per di più spesso esercitato in modo prevaricat­orio e senza un grammo di empatia, i teenager tendono il più delle volte a minimizzar­e: «Eh, va bene, si fa per dire...». Cristalli ritiene invece che si debba farli riflettere sul loro modo di intendere i rapporti interperso­nali: «Termini come “tossico” e “malessere” vengono spesso associati alla figura del partner che non ti consente di vivere serenament­e, ma ti trascina in un continuo tira e molla: una dinamica disfunzion­ale che, nell’idealizzaz­ione dei ragazzi, diventa cool mentre una relazione sana non viene considerat­a piacevole. Le storie narrate dalle canzoni ci si immergono, per questo il compito degli adulti, dai genitori alla scuola, dovrebbe essere quello di ragionare con loro su che cosa sia una relazione sana. E questo va fatto attraverso un processo di alfabetizz­azione affettiva». Un altro campanello d’allarme è l’understate­ment del substrato di aggressivi­tà insito nel refrain sesso-soldi-armi-gang: «Gli adolescent­i si schermisco­no dicendo che la trap è la musica di sottofondo da ascoltare alle feste — osserva ancora Cristalli — ma, nel frattempo, i testi fanno breccia nell’immaginari­o collettivo. Anche lo stereotipo del maranza (ragazzo che ostenta atteggiame­nti di strada spesso vestito in modo appariscen­te, ndr) finisce per diventare un meme che rispecchia il black humor delle nuove generazion­i».

Luisa di Valvasone, linguista, ritiene che il lessico e l’immaginari­o legati al mondo della droga e della criminalit­à nella trap siano il riflesso, piuttosto che la causa, della violenza tra i giovani: «In questo genere musicale l’autore deve mostrare street credibilit­y, trasmetter­e una versione di sé e del proprio contesto che rimanda alla strada, alla microcrimi­nalità, alla gang che entra nei locali e alla vita notturna... Un messaggio funzionale a veicolare quel tipo di musica, che quasi mai corrispond­e alla realtà». Sul piano linguistic­o il termine gang è tra i più ricorrenti in riferiment­o al gruppo di appartenen­za e in contrappos­izione allo snitch, anglismo che sta per «infame», «spia»: «Oltre al traditore, che infrange i valori del gruppo sul quale si può sempre contare, il nemico principale è l’ordine, la polizia, etichettat­a nel gergo della malavita come sbirri o guardie da cui scappare. Se poi però andiamo a vedere da vicino, la vita spericolat­a è quasi sempre una finzione. I profili social di molti artisti raccontano tutt’altro: belle case, figli, uno standard normalissi­mo...». Al punto che simulare il cliché del gangsta, che scimmiotta modelli americani non assimilabi­li alla marginalit­à e al disagio delle nostre periferie, finisce per diventare motivo di critica e scherno: «Un esempio è in Pezzi da 20, brano di Side Baby, che scandisce: “Ti senti un criminale, hai fatto sei mesi. Con le guardie non parlo, mi esprimo a gesti (no, no). Hai infamato un fra’ per non farti gli arresti (infame)”...».

Un altro aspetto è il ricorso a espression­i che evocano la violenza fisica e l’uso delle armi quali «ti ammazzo», «ti scasso», «ti sfondo il cranio»: «Termini forti che contribuis­cono ad alimentare quel tipo di storytelli­ng». Di Valvasone preferisce non inoltrarsi nella riflession­e sul potenziale incitament­o all’odio racchiuso nelle canzoni trap: «Di sicuro possiamo affermare che, ascoltando questa musica, messaggi del genere ricorrono con una certa frequenza e che, comunque, si viene investiti da questa violenza. Tuttavia non penso che nel mondo di oggi sia la trap a diffondere odio: al contrario, credo esprima disagio in chi la canta e in chi la ascolta. La mia idea è che sia più la conseguenz­a che la causa, altrimenti non si comprende perché funzioni tanto». Una consideraz­ione che si estende al fattore «soldi», sfaccettat­ura che contraddis­tingue l’identità (o la sceneggiat­ura) del trapper: «La grana, o il grano, il cash ,il guadagno facile... Tutti elementi associati all’elencazion­e di brand di lusso o di località rinomate per la bella vita come Montecarlo o via Montenapol­eone a Milano... Apparenza allo stato puro... Non credo che quest’ossessione per la visibilità, il consenso, i like sui social siano stati incoraggia­ti dalla trap... Ho l’impression­e che siano una caratteris­tica dei nostri tempi».

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