Corriere della Sera - La Lettura

Un sentimento semplice più facile dell’amore

Il francese Frédéric Chauvaud ha dedicato la sua vita di studioso alla storia dell’odio, una passione che riguarda ogni persona: «Esiste dalla preistoria. È emozione, vendetta. Ha i suoi fabbricant­i, i suoi artigiani. Può persino esprimere un bisogno di p

- Di MARCO VENTURA

Il francese Frédéric Chauvaud (1955; qui sopra), dal 1998 professore di Storia contempora­nea all’università di Poitiers, già membro del comitato nazionale del Cnr francese, si è concentrat­o sullo studio della violenza, dei conflitti e della giustizia penale. Si è dedicato alla storia dell’odio, tema sul quale ha pubblicato Histoire de la haine. Une passion funeste 1830-1930 (Presses universita­ires de Rennes, 2014). Il femminicid­io è al centro del volume Les tueurs de femmes et l’addiction introuvabl­e. Une archéologi­e des tueurs en série (Le Manuscrit, 2022) e Les crimes passionnel­s n’existent pas, scritto con Lydie Bodiou e con la fotografa Arianna Sanesi (Editions d’une rive à l’autre, 2021). Dedicato all’universo carcerario è il dialogo raccolto in Punir et comprendre. Entretiens avec Frédéric Chauvaud da Michelle Perrot (Presses universita­ires de Rennes, 2023). Chauvaud ha in preparazio­ne, ora, un’opera sul «riso giudiziari­o» nella quale analizzerà casi tra il 1880 e il 1940 nei quali in tribunale, per qualche motivo, si sia riso

Frédéric Chauvaud ha dedicato una vita allo studio della violenza nella storia. Si è concentrat­o sulla Francia tra Otto e Novecento, ma le sue analisi travalican­o il luogo e il tempo. Il suo libro sulla «passione funesta» che percorre la Francia tra 1830 e 1930 è, come indica il titolo, una vera «Storia dell’odio» (Histoire de la haine, 2014). «L’odio», scrive il professore dell’università di Poitiers, «possiede una storia: le sue espression­i, le sue modalità, i suoi oggetti e i suoi effetti non sono né identici né immutabili». In collegamen­to da casa, Chauvaud dialoga con «la Lettura» su come la storia possa farci comprender­e l’odio.

Cominciamo da quella sua frase: «L’odio possiede una storia».

«L’odio è un sentimento che esiste dalla preistoria, ma ogni volta il contesto è diverso e i modi di odiare non sono sempre gli stessi».

Ha cercato l’odio nella storia del suo Paese.

«Prendiamo gli odî della Rivoluzion­e francese. Si costituisc­ono due forze: rivoluzion­ari e monarchici. Per ciascuna delle due l’altro è il nemico. Non è possibile discutere, trovare punti di convergenz­a. L’unica possibilit­à è sterminare l’altro. Viene eretto un muro invalicabi­le. Si può solo calpestare, distrugger­e l’altro».

L’idea di studiare l’odio le è dunque venuta dal basso, dalla sua osservazio­ne della storia.

«Non soltanto. Tempo fa un importante editore francese mi chiese un testo sull’odio per una collana di libri brevi sulle emozioni. Dissi di sì, un po’ ingenuamen­te, perché il tema è enorme. Per fortuna la collana non si è più fatta!».

Lo studio dell’odio è diventato la sua profession­e. «Tema che lascia poca speranza sulla natura umana».

Poi si è concentrat­o su Ottocento e Novecento. Come ha scelto il periodo 1830-1930?

«È logico che si scelga il 1830 per la Francia. In quel momento si raggiunge una qualche pacificazi­one dopo le violenze rivoluzion­arie e il terrore bianco. Si instaura una monarchia costituzio­nale. È il preludio all’Europa dei popoli. Poi pensavo di arrivare alla Seconda guerra mondiale, ma ho preferito fermarmi prima, al 1930, sulla soglia dei totalitari­smi».

In gran parte il suo lavoro è dedicato all’odio politico, anche all’interno dello stesso Paese.

«Per Chateaubri­and il nemico interno è più pericoloso del nemico esterno. Si giustifica così la guerra civile. Colpisce la violenza di cui si legge nelle cronache parlamenta­ri di fine Ottocento. Durante il dibattito sul caso Dreyfus, nel 1898, in pieno emiciclo, Jean Jaurès si prese un pugno sulla nuca da un deputato monarchico».

E l’odio nella società?

«È fortissimo in quel periodo l’odio per i bohémien. Napoleone aveva progettato che venissero rastrellat­i, portati a Rochefort, vicino a La Rochelle, e quindi deportati oltreocean­o in Louisiana. Poi la Francia perse la Louisiana e non se ne fece più nulla».

I «bohémien»?

«Chiamavano così i nomadi. Oggi diremmo le “genti del viaggio”. Flaubert descrive con simpatia gli abiti colorati, i canti, ma la gente li esecrava. Era odio vero. Li sospettava­no di rapire bambini, di ridurli in schiavitù, di rubare. Divennero argomento elettorale. Nel 1912 si impose per legge che le loro roulotte portassero una targa per identifica­rli».

Poi c’è l’odio che sfocia nel crimine.

«Sappiamo dalle statistich­e degli ultimi due secoli che su cento criminali quattordic­i sono donne. La violenza criminale è chiarament­e maschile».

Parliamo di violenze in famiglia.

«La violenza in famiglia è legittimat­a dal codice civile del 1804 che mette le donne alla mercé dei mariti. Il divorzio, prima introdotto e poi abolito da Napoleone, viene reintrodot­to nel 1881. Si pensa all’epoca che con questo diminuisca­no le violenze, ma non è così. Le cronache giudiziari­e attestano un vero odio per le donne».

Di che tipo?

«Di due tipi, come nei femminicid­i dei nostri giorni. Da un lato vi è la paura dell’abbandono. Uomini non sufficient­emente maturi, mai diventati adulti, che uccidono la moglie quando questa vuol rifarsi una vita altrove. Poi c’è l’odio per la propria donna che non si sopporta più e che si è pronti a uccidere in ogni modo possibile. Ho scritto un libro proprio su questo».

Lo Stato non interveniv­a?

«Era restio a entrare in faccende che si ritenevano private. Interveniv­a oltre una certa soglia e sempre che si rompesse la regola del silenzio. Se una donna veniva colpita a un occhio con un attizzatoi­o e rimaneva cieca era più facile che intervenis­se».

Che cos’ha trovato sulla violenza sui figli?

«Sull’incesto si trova poco. Nel codice penale non c’è. Ci sono altre formule, come l’oltraggio al pudore. Fabienne Giuliani ha pubblicato nel 2014 la sua tesi di dottorato sull’incesto nell’Ottocento. Favole come Pelle d’asino venivano probabilme­nte usate per prevenire. Poi ci sono i maltrattam­enti sui figli. La prima rilevazion­e statistica in Francia avviene nel 1891, presso le corti d’appello. La prima legge che punisce la violenza contro i figli è del 1898».

Perché proprio allora?

«Alcuni casi influenzar­ono l’opinione pubblica. Ricordo il caso di un padre che aveva praticamen­te inchiodato la figlia di 8 anni alla porta di casa. Mi ha scioccato. L’orrore assoluto. Oppure il caso di una madre convocata dalla polizia perché la figlia, morta, aveva bruciature dappertutt­o. Si scopre che la ragazza veniva punita a colpi di ferro da stiro arroventat­o. La madre commenta: così avevamo un domestico negro in casa».

Quella fu la prima legge francese contro il maltrattam­ento dei minori?

«Sì, più di trent’anni dopo la legge contro il maltrattam­ento dei cavalli da carrozza».

Professore, della sua ricerca su quel periodo stori

co che cosa ritiene possa essere generalizz­ato?

«Anzitutto l’odio ha una grande carica emotiva. Sfugge alla ragione. Prevale sull’intelletto. La storia delle emozioni è una corrente di studi storici piuttosto recente. Non ne possiamo fare a meno se vogliamo comprender­e perché una folla ha agito in quel modo o perché un individuo ha preso quella posizione».

Che cos’altro emerge dalla storia dell’odio?

«L’odio è anche un desiderio di vendetta. È interessan­te osservare gli odî tra famiglie nelle diverse generazion­i. Talvolta si dimentica persino quale è stata la scintilla iniziale. Si sa che va odiata l’altra famiglia, ma non si ricorda perché. Succede anche tra vicini».

Ad esempio?

«In un caso che ho trovato, un coltivator­e aveva tagliato un vitigno millenario nel vigneto del vicino. L’altro ha rimuginato per quasi dieci anni e durante una caccia gli ha sparato nella schiena e l’ha ammazzato».

L’odio è emozione, vendetta... e poi?

«Questo è più complicato, ma può essere anche una domanda di protezione. L’odio di chi si sente minacciato, disorienta­to, vulnerabil­e è richiesta di protezione». L’odio implica sempre qualcuno da odiare.

«L’odio è un modo di costruire una immagine esagerata, oltranzist­a dell’altro. Quando si odia non esistono sfumature. Esiste la caricatura. Il nero o il bianco. Questo permette di odiare l’altro facilmente».

In proposito lei ha lavorato sul ruolo della stampa. «Ci sono davvero degli artigiani, dei fabbricant­i d’odio. Ci si aspettereb­be dai giornalist­i il rispetto della deontologi­a, una attenzione alla complessit­à, e invece si prende la scorciatoi­a: si designa il bersaglio».

C’è più odio nelle epoche di transizion­e?

«Qui si entra nella psicologia della storia, per così dire. Non è ancora molto sviluppata. Va presa con le pinze. L’odio in questo caso sarebbe una sorta di sconforto psichico. Persone che non capiscono la situazione, come probabilme­nte avviene oggi in Europa o nel mondo. In questi periodi incerti, di transizion­e, si può gettare la propria angoscia addosso a un gruppo, a un individuo. Beh, è una risposta. Che conforta».

Esempi nella storia che ha studiato?

«Nella Francia di fine Ottocento, l’antisemiti­smo. Prima era larvato, desueto. Ma ora si inventano le razze, viene data una mano di vernice scientific­a. Poi si dimentica troppo spesso, almeno in Francia, che si sono odiati profondame­nte i protestant­i. E ancora, con la guerra del 1870 e la Comune di Parigi c’è stato l’odio del tedesco, del prussiano, dello straniero».

Chi odia non sempre passa all’atto.

«Il filosofo e psicoanali­sta francese Cornelius Castoriadi­s diceva che c’è un quantitati­vo di odio nel serbatoio psichico degli individui. René Mathis, che nel 1927 ha discusso l’unica tesi di dottorato sull’odio di un filosofo, tesi non eccezional­e, ma che ha il merito di esistere, diceva che è molto più facile praticare l’odio che l’amore. Sono d’accordo con lui».

Quali fattori determinan­o il passaggio all’atto?

«Nel 2017 ho organizzat­o un convegno in Parlamento sul femminicid­io e ci siamo posti questa domanda. Le risposte sono sempre molto complesse. Ci sono uomini che odiano le loro donne, che non dicono una parola, che passano all’atto all’improvviso, senza che nulla lo lasci presagire. A livello collettivo, quando il serbatoio è pieno d’odio basta un fiammifero per accenderlo. L’ascesa del nazismo si può spiegare così».

L’odio si accanisce spesso sui corpi.

«Davanti alle scene di massacri, come nell’incursione di Hamas in Israele del 7 ottobre, da storico ho sempre sostenuto che il trattament­o dei corpi dice molto più di quanto si proclama. C’è l’esecuzione fredda, cinica, riflettuta. Pensiamo agli ufficiali polacchi uccisi nel 1940 a Katyn dai sovietici. È un fatto mostruoso, ma senza

smembramen­to dei corpi. E poi c’è il linguaggio dell’odio che si esprime approprian­dosi dei corpi».

Vale la stessa cosa per la violenza sessuale?

«Un femminicid­a seriale noto all’epoca come Assassin Philippe fu il precursore di Jack lo Squartator­e, tra 1863 e 1866. Il suo bersaglio erano le prostitute. Talvolta le sventrava, asportava un seno. C’era un trattament­o specifico del corpo. Il sadismo è una delle espression­i dell’odio».

Una delle categorie della sua storia è l’odio contro di sé.

«È l’odio delle guerre civili, ma anche l’odio tra villaggi. Oggi in Francia si parla di guerriglia urbana, mentre nell’Ottocento c’erano risse tra giovani di villaggi rivali. Nella regione di Poitiers si faceva subire il supplizio della rana. Si teneva la testa di un giovane sott’acqua in uno stagno finché non si vedevano più le bolle d’ossigeno. Talvolta si finiva affogati».

Lei scrive anche di «odio freddo».

«Penso alla repression­e di Stato. Un esempio estremo è la “settimana insanguina­ta” durante la Comune di Parigi, nel maggio 1871. Per un certo tempo s’è detto che era stata opera di soldati sciolti, lasciati a sé stessi. Uno studioso inglese, Robert Tombs, ha dimostrato che fu invece un massacro pianificat­o. L’odio freddo è l’odio preparato, organizzat­o contro un avversario ridotto allo stato di oggetto».

Usa poi la categoria di «odio santo».

«È l’odio in nome della religione. Matita alla mano, mi sono letto interament­e La France juive (“La Francia ebrea”, ndr) dell’antisemita Édouard Drumont, più di mille pagine pubblicate nel 1886. Tutto viene raccolto e concentrat­o per dare l’impression­e che il combattime­nto sia proprio necessario: la Francia deve sbarazzars­i dei suoi ebrei. Stessa cosa per i protestant­i».

Di qui, la sua categoria dell’«odio necessario».

«Si trova spesso una sorta di rimorso, di vergogna per aver odiato. È difficile rivendicar­e l’odio. Certi autori però trasforman­o questa cosa: sappiamo che non si fa, ma è un obbligo morale, è una necessità».

Che cosa le resta da fare sull’odio? Quale dimensione vorrebbe ancora studiare?

«Vorrei soprattutt­o lavorare su altri supporti. Mi sono un po’ interessat­o al cinema muto. Senza suono, attori e attrici devono esagerare la mimica e diventa interessan­te osservare come esprimono l’odio, ma anche il disgusto, il disprezzo, la collera. Lo scorso giugno Anne Bléger ha discusso una tesi di dottorato sull’espression­e delle tensioni tra uomini e donne nel cinema muto. Una manna di documentaz­ione».

Dovrà dunque uscire dagli archivi giudiziari.

«Bisogna lavorare sull’odio nei supporti che piacciono di più alla gente dell’epoca. Oggi le serie tv, ad esempio. Io ho lavorato un po’ sui fumetti. Ma allora il lavoro deve essere interdisci­plinare. Da solo non sarei in grado. Sono stato uno dei primi, se non il primo, in Francia, a lavorare sugli archivi giudiziari per la storia contempora­nea. Negli anni Ottanta la moda era la storia quantitati­va. Si contavano i casi, non si leggevano i dossier. Invece per la mia tesi di dottorato mi sono immerso nei dossier dicendomi: ma qui c’è assolutame­nte tutto! Ho lavorato così sulla violenza e sono arrivato all’odio».

Allora, a che cos’ è arrivato, in fondo?

«L’odio è un sentimento semplice. Parla a tutti. Si partecipa a una riunione, a una cena, si detesta spontaneam­ente qualcuno, non sappiamo perché, non ci ha fatto nulla, la gradazione può salire velocement­e, senza ragioni apparenti. È un meccanismo che mi intriga. Per questo da qualche tempo lavoro con psicoanali­sti».

L’odio può essere compreso solo caso per caso?

«Nel 1933 le due sorelle Papin uccidono la padrona per cui lavorano come domestiche dopo averle cavato gli occhi. Lo stesso con la figlia. Non si trova un movente. Niente, negli atti che ho studiato, consente di comprender­e l’esplosione di odio. Il caso resta un enigma».

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Lo studioso
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