Corriere della Sera - La Lettura
Non finisce bene la passione senza nome
André Aciman presenta l’unica opera di contigua al circolo di Bloomsbury
Scriveva Jean de La Bruyère, moralista francese del Seicento, che si ama veramente soltanto una sola volta, la prima. Gli amori che seguono sono meno «involontari» dice, cioè meno spontanei, meno istintivi. È questo aforisma che Dorothy Strachey (1865-1960) usò per introdurre il suo romanzo Olivia, uscito in Italia la prima volta nel 1959 da Einaudi, riedito oltre vent’anni fa da Baldini & Castoldi e ora in libreria per Astoria, sempre nella sensibile, impeccabile traduzione di Carlo Fruttero. La prefazione dello scrittore André Aciman (che a questo libro si è ispirato per Chiamami col tuo nome) illumina il romanzo autobiografico, l’unico scritto da questa insegnante e intellettuale vittoriana, sorella dello scrittore e critico Lytton e di James, primo traduttore inglese di Sigmund Freud, contigua per legami famigliari e frequentazioni al circolo di Bloomsbury che ne «contaminò» il pensiero.
Traduttrice e amica di André Gide
(nel 1933 gli mandò il romanzo a cui lui oppose un cortese, distratto silenzio che tuttavia non scalfì il loro rapporto) Dorothy si decise a pubblicare Olivia soltanto nel 1949 presso la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf. Il libro, dedicato appunto alla memoria di V. W., uscì in forma anonima con il titolo Olivia by Olivia (Dorothy Strachey peraltro firmava spesso le sue traduzioni come Dorothy Bussy, dal cognome del marito, il pittore francese Simon) e fu un successo immediato che però, nel corso degli anni, subì vari periodi di oblio.
Benché scritto quando Strachey era intorno alla settantina, a dare il tono di questa breve e, per i tempi, scandalosa novella adolescenziale è il candore che riveste l’improvviso, imprevedibile desiderio che nasce tra la sedicenne inglese Olivia, io narrante della storia, e Mademoiselle Julie, la direttrice del collegio francese dove la ragazza viene mandata per completare la sua educazione, come l’epoca e la classe sociale imponevano alle famiglie abbienti e colte. Un sentimento incomprensibile, a cui Olivia non sa dare un nome, ma di cui Dorothy Strachey sa raccontare tutte le sfumature. Non c’è nulla di carnale, nulla che si consumi; la passione brucia in fugaci sguardi e piccoli gesti (una mano accarezzata), in attenzioni che possono riguardare il cibo o le letture; si manifesta in momenti di esaltazione estrema e di disperazione cupa. Il tocco della scrittrice è particolarmente felice nella grazia con cui dice e non dice, allude e rivela. Olivia non è consapevole di che cosa le accade, non sa riconoscere ciò che prova — desiderio? amore? infatuazione? — ma capisce che tutto è legato, in quell’enclave femminile di libertà intellettuale così inconsueta anche per Olivia. «Eravamo una famiglia vittoriana, e nonostante il nostro agnosticismo quasi militante, eravamo fedeli senza la più piccola sfumatura di scetticismi o di ipocrisia agli ideali del tempo. Il dovere, il lavoro, l’abnegazione, la severa repressione di ciò che si chiamava indulgenza verso sé stessi...», scrive in un passo che manifesta il tratto autobiografico della storia.
L’atmosfera è tutto: la fiamma inizia ad ardere leggendo Racine ad alta voce e diventa un’iniziazione all’arte, alla bellezza, al gusto, mentre dalle stanze del collegio, dalla biblioteca, dal refettorio spirano refoli di gelosie, risentimenti, insinuazioni e maldicenze che trasformano la passione in paura e infine in tragedia. «Il romanzo è un inqueto viaggio tra dubbi autoinflitti e autoaccuse. Quelle di Oliva non sono riflessioni razionali, ponderate. Sono ossessive perché l’amore è sempre ossessivo» scrive Aciman di questo piccolo gioiello che Colette Audry sceneggiò per l’adattamento cinematografico del 1951. Ogni parola, ogni movimento, ogni sussulto dà al racconto del primo amore quel tratto di assoluto che ne fa un’esperienza universale. Come dice Olivia: «Capisco tutto, finalmente ho capito. La vita, la vita, la vita, questa è la vita, piena fino all’ orlo di ogni estasi e ogni tormento».