Corriere della Sera - La Lettura
Mencarelli Una vita in versi
Un amore adolescenziale che si proietta negli anni e una notte in hotel con una fatale partita a poker: due sequenze (due poemetti) in uscita confermano la vena realistica del romanziere
La poesia di Daniele Mencarelli, come poi anche la sua prosa, ha sempre cercato per vivere un di più di realtà. Di fronte a scritture che tentano la purezza, l’astrazione, l’incanto formale, Mencarelli, nato nel 1974 a Roma, preferisce invece esporre le sue parole allo shock di qualcosa di esistente, di sperimentato, di doloroso anche.
È la storia della sua poesia e della sua prosa narrativa e testimoniale: da Bambino Gesù del 2001, per i versi, ambientati dentro il grande ospedale pediatrico con le sue storie di sofferenza e di attesa, a Tutto chiede salvezza del 2020, per la prosa, storia di un gruppo di persone ricoverate in un reparto di psichiatria. È così che la scrittura dell’autore, in particolare la sua poesia, appare sempre un po’ spiegazzata, stropicciata, impura, compromessa col mondo. L’opposto di una poesia mentale, di una costruzione primariamente intellettuale, rarefatta e ordinatrice.
In Degli amanti non degli eroi, libro di poesia che sta per essere pubblicato nella collana «Lo Specchio» di Mondadori, l’autore predispone un dittico: due diversi attraversamenti della realtà trasfusi in parola. Ad aprire il libro c’è il pezzo migliore, già edito a sé in precedenza (nel 2015, presso la collana Gialla di Pordenonelegge) e ora sottoposto a revisione: la Storia d’amore.
Dicevamo che l’autore ama raccontare esperienze forti, che si prestano alla condivisione, alla partecipazione emotiva del lettore. Qui si tratta di un primo amore, che vede protagonisti un ragazzo di sedici anni, Gabriele, e una ragazzina di due anni minore, Anna. Gli ingredienti sono quelli di una giovinezza problematica: Gabriele viene da un gruppo di amici che fa uso di droghe, è scapestrato, inquieto e dagli amici si separerà. Alla fine della storia d’amore, scandita precisamente dalle date e risalente al periodo tra l’11 ottobre 1992 e il primo dicembre 1993 (segue poi un post scriptum di Anna, di trent’anni dopo), Gabriele muore in un incidente e lascia ad Anna il «dono» di un vuoto che dovrà colmare.
In effetti, narrata tutta in prima persona, dal punto di vista di Gabriele (e quindi dell’autore), si tratta di una storia elementare e minima di amore, di un’educazione, anche, al senso della meraviglia, tramite una persona che su di sé attira quanto di bello e positivo sembra poter esistere al mondo. Così, di fatto, Anna e il desiderio per lei, lo stare con lei, il vivere giorno per giorno di lei, diventano per Gabriele, inaspettatamente, gradini verso un Tu superiore. Il tema è quindi quello di un amore che innalza perché apre al mistero, al segreto sapore della vita, al cammino verso il senso.
Come Ezra Pound poteva chiedere stupito a Dio che cosa avesse fatto l’uomo per meritare l’immenso dono di Venezia, la città delle acque, così il protagonista del testo dice a proposito di Anna: «Cosa in un tempo passato o futuro / devo aver compiuto di così eroico / cosa Ti ho portato in dono / per meritarmi lei come Tuo segno / […]».
La «conversione» al vero dell’amore avviene dentro una serie di scene umili, quotidiane, dimesse (la didascalia finale recita: Questa è la storia di tanti, di nessuno). Sono due ragazzini che si vanno incontro, lui quasi spaccone, indifferente, e scoprono l’uno nell’altra un riflesso d’infinito. Anna lo farà a distanza, soprattutto, dopo la morte di Gabriele, inseguendolo in un figlio venuto tanti anni dopo da un altro uomo. Di spunti letterari non sarebbe nemmeno da parlare, se non che il tema ne impone la questione, se non altro come orizzonte per il lettore: più che alla Vita nuova di Dante, penserei a Il primo amore di Giacomo Leopardi, componimento in terzine ac
colto nei Canti, da leggersi in parallelo al testo in prosa Diario del primo amore (risalente al dicembre 1817). Naturalmente le distanze sono enormi e il contatto è più che altro tematico.
La sequenza di Mencarelli ha una sua delicatezza e una sua efficacia, pur tra qualche debolezza formale e qualche ingenuità: soprattutto sembra prestarsi a una lettura che non sia solo quella degli esperti, diciamo pure a una lettura adolescenziale. E questo anche se il discorso sull’adolescenza vi sia abbozzato più che svolto, al pari del passaggio dalla dissennata ricerca di vitalità di Gabriele a un’esperienza di amore autentico, che apre all’Altro. In questo senso, comunque, il poeta non rinuncia a una specie di velato controcanto a Eugenio Montale (vi ricordate il celebre «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», dagli Ossi di seppia?), consegnato a questo endecasillabo: «Questo noi siamo, questo noi valiamo».
La seconda parte del libro è occupata da un testo inedito, Lux Hotel, che racconta in versi una notte in un albergo di lusso: una partita a poker fra tre famosi eroi nazionali, che si riveleranno falsi, la morte di due di loro, l’epilogo accomodante per non turbare l’opinione popolare. Il tutto è visto dagli occhi e filtrato dal racconto di un cameriere: tentativo di una presa diretta, non più di tanto convincente, a parte qualche lampo sulle notti d’azzardo di un Paese che vive di apparenze.