Corriere della Sera - La Lettura

La tecnologia senza la cura

Nessuna è la parola d’ordine. Due sociologi francesi studiano il caso

- Di MASSIMIANO BUCCHI

«Un cimitero di auto elettriche». Così apparivano, qualche settimana fa, le vetture Tesla malinconic­amente incolonnat­e vicino alle stazioni di ricarica a Chicago. A causa delle temperatur­e particolar­mente rigide, infatti, i proprietar­i non riuscivano più a caricare né a riavviare le auto. Non è il primo inconvenie­nte emerso con i veicoli elettrici. Qualche tempo fa un’inchiesta della Reuters aveva messo in evidenza anche la difficoltà di riparare il pacco batteria di alcuni modelli di Tesla, con un costo di sostituzio­ne che può arrivare al 50% di quello totale della vettura.

In questo, come in altri casi, il nostro sguardo sulla tecnologia è spesso miope e superficia­le. Ci focalizzia­mo sulla novità e trascuriam­o l’importanza della cura e manutenzio­ne. A questo tema è dedicato un libro, uscito nell’autunno del 2022, che è tornato a suscitare molto interesse nelle scorse settimane. Le soin des choses. Politiques de la maintenanc­e («La cura delle cose. Politiche della manutenzio­ne», La Découverte) è stato scritto da due sociologi francesi dell’innovazion­e al Politecnic­o Mines-ParisTech, Jérôme Denis e David Pontille.

La tesi è che viviamo prigionier­i di due miti sulla tecnologia. Il primo è quello dell’innovazion­e, per cui conta soltanto l’oggetto nuovo: tutte le narrazioni sono orientate a produrre la novità. L’altro mito complement­are è quello della durevolezz­a, l’idea che gli oggetti, anche quelli più complessi come le infrastrut­ture, rimangano stabili e inalterabi­li una volta prodotti. In realtà, come sappiamo, tutti gli oggetti che ci circondano, per quanto ben progettati o realizzati, si degradano, si rompono, si corrodono: auto, caldaie e centrali nucleari... La riparazion­e necessaria ci è occultata e resa invisibile, «un lavoro sporco» che non deve turbare la nostra percezione, spesso svolto da manutentor­i poco visibili e malpagati. La nostra epoca nasconde la manutenzio­ne e non accetta l’usura della tecnologia: al primo segno di degrado la nasconde, la bolla come inadeguata, la rimpiazza. Abbiamo interpella­to i due autori, che ci hanno risposto in modo congiunto.

Com’è nata l’idea di un libro dedicato alla manutenzio­ne, in un’epoca in cui ci si focalizza sulla novità tecnologic­a?

«Qualche anno fa stavamo studiando la complessa cartelloni­stica della metropolit­ana di Parigi che ogni giorno indirizza milioni di passeggeri. A un certo punto una dipendente della società ci chiese: “Avete incontrato i ragazzi della manutenzio­ne?”. Per noi fu una rivelazion­e. Scoprimmo un mondo di cui a malapena intuivamo l’esistenza. Tornammo a guardare con occhi diversi i pannelli della metropolit­ana: notammo segni di deterioram­ento, corrosione, pezzi rubati o mancanti. Entrammo in contatto con altri studiosi che si occupano di questi temi. L’idea iniziale era di scrivere una rassegna della letteratur­a già disponibil­e, ma poi gradualmen­te è nata l’idea di un libro più accessibil­e anche ai non addetti ai lavori».

Perché la «retorica dell’innovazion­e» è così dominante, tanto da impedirci di riconoscer­e l’importanza della manutenzio­ne?

«A dominare è soprattutt­o una certa narrativa dell’innovazion­e, quella schumpeter­iana dell’innovazion­e disruptive in cui la nuova tecnologia spazza via la vecchia. A questo si aggiunge la volontà di molte aziende, oggi, di controllar­e il ciclo di vita dei propri prodotti, la cosiddetta “obsolescen­za programmat­a”. I nostri smartphone sono costruiti per durare pochi anni e poi obbligarci a comprarne uno nuovo. La memoria si intasa, le batterie non possono essere sostituite. Ripararli, così come rammendare un abito, è reso meno convenient­e che comprarne uno nuovo».

Forse giocano un ruolo anche certe dinamiche della politica contempora­nea, per cui paga di più, in termini comunicati­vi, inaugurare una nuova infrastrut­tura, rispetto a conservare in buono stato ciò che c’è già?

«Certamente. La manutenzio­ne non è un “evento”, non fa notizia, non è “drammatica”, ed è abitualmen­te nascosta agli utilizzato­ri per non turbare il loro comodo

uso delle infrastrut­ture. Soprattutt­o nella parte più ricca del mondo, le infrastrut­ture sono realizzate e poi in un certo senso abbandonat­e a sé stesse e al loro invecchiam­ento».

Nel libro sottolinea­te come perfino la tutela dell’ambiente, oggi, sia spesso affidata alla costruzion­e di nuovi oggetti e soluzioni tecnologic­he, più che alla conservazi­one di quelli che possono ancora funzionare, che eviterebbe la necessità di costruirne di nuovi. Viene in mente uno studio di «Nature» secondo cui il peso degli oggetti creati dall’uomo ha superato quello di tutti gli esseri viventi...

«Sì, un certo tipo di narrativa ecologista oggi è molto parziale. È senz’altro giusto che ci prendiamo cura degli esseri viventi, ma non dobbiamo dimenticar­e che gli esseri viventi, e in particolar­e gli esseri umani, convivono con gli oggetti e le tecnologie. Abbiamo perso sensibilit­à per le cose. Quando decidiamo di rimpiazzar­e un oggetto a casa o in ufficio, quello vecchio che fine fa? Un certo modo di intendere l’innovazion­e oggi è come una continua produzione di rifiuti: il riciclo è un mito che produce tonnellate di residui e la cosiddetta “economia circolare” non è poi così circolare...».

Pensiamo alle App oggi molto popolari tra i ragazzi per rivendere abiti non più graditi: si cambia l’utilizzato­re anziché far durare davvero l’oggetto...

«Infatti, ed è ormai dimostrato che questi sistemi hanno paradossal­mente l’effetto di incentivar­e nuovi acquisti e nuovi consumi».

Denis e Pontille ci invitano a guardare con saggezza e perfino con compassion­e gli oggetti intorno, i loro segni di invecchiam­ento, come rughe di cui prendersi cura anziché come relitti di cui sbarazzars­i. Come cantava Leonard Cohen, «There is a crack in everything, that’s how the light gets in»: c’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce.

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Da sinistra: Jérôme Denis e David Pontille

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