Corriere della Sera - La Lettura
INTANTO GIOCHI E VIDEO PLASMANO LA LINGUA
Non è un Paese per giovani, si dice spesso del nostro. Anche gli spazi del linguaggio giovanile — in effetti — si sono via via ristretti, passando da quelli della contestazione politica tra fine anni Sessanta e fine anni Settanta, a quelli della moda e dei marchi negli anni Ottanta e Novanta, a quelli virtuali della rete e poi dei social network in questi primi due decenni del Duemila. Come scrive Maria Silvia Rati nel suo I giovani e l’italiano (Franco Cesati Editore, pp. 114, e 12), oggi la lingua dei giovani e delle giovani «trae la sua linfa più vitale dal linguaggio dei giochi online e dei video pubblicati su TikTok e YouTube e si riversa, poi, sia nei commenti degli utenti, sia nelle loro chat e messaggi vocali di WhatsApp, da cui si trasferisce inevitabilmente agli usi parlati».
Il risultato è un italiano giovanile sempre più schiacciato sull’e-taliano telematico (dato che vive soprattutto nella dimensione digitale), sempre più infantile (si usa già a 10-11 anni, perché a quell’età comincia l’esposizione a questi modelli), sempre più glocale: un po’ come gli slang dei gamer e dei trapper da cui trae alimento, con la loro miscela di anglicismi internazionali e dialettismi generazionali.
Una lingua in cui si può parlare in corsivo, come nella moda lanciata qualche tempo fa da un’influencer («Tuttoe benoe ?»« Facciamiooo apieeee in cientroooo???»), ma scrivere soltanto in stampatello. In cui il romanesco di Zerocalcare
(un accollo, s’ingarella )eil napoletano di Mare fuori («Nun te preoccupà, guaglió, ce sta’o mare fore») possono esportare parole e modi di dire in tutta Italia. Ma la gran parte del vocabolario giovanile proviene ormai direttamente o indirettamente dall’inglese. Si va dal nabbo (ovvero noob ,a sua volta deformazione di newbie cioè novellino, principiante) alla hype — cioè il successo o clamore che fa qualcosa o qualcuno — fino a tutti i verbi ibridi come crashare, dissare, killare, scammare e così via.
Sul piano della scrittura, osserva Rati, gli effetti più evidenti riguardano l’interpunzione. E riporta fotografie di elaborati universitari nei quali viene costantemente omesso il punto fermo. Proprio come nei dialoghi in chat, in cui il punto è considerato un’espressione di ostilità e l’unico tipo di punteggiatura adottato è quello espressivo dei punti esclamativi e di sospensione o anche dei punti interrogativi in funzione enfatica («ma che bello è?»): come si farà in futuro a far capire che una frase è davvero una domanda?
Del vecchio «essemmessiano» sopravvive solo qualche abbreviazione (come pk «perché» o pls «please»), mentre i tormentoni tipici della cultura giovanile si sono ora trasformati in meme che si appoggiano all’elemento visivo («e niente...», «mi dissocio»). Il tutto in una testualità frammentata e asservita all’elemento multimediale. Com’è chiaro già da tempo, «la consuetudine con le scritture digitali — ribadisce Rati — non aiuta certamente i giovani ad allenarsi nella costruzione di testi articolati e complessi. Per questo, nella situazione attuale, l’unico supporto può venire dalla scuola».