Corriere della Sera - La Lettura

INTANTO GIOCHI E VIDEO PLASMANO LA LINGUA

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Non è un Paese per giovani, si dice spesso del nostro. Anche gli spazi del linguaggio giovanile — in effetti — si sono via via ristretti, passando da quelli della contestazi­one politica tra fine anni Sessanta e fine anni Settanta, a quelli della moda e dei marchi negli anni Ottanta e Novanta, a quelli virtuali della rete e poi dei social network in questi primi due decenni del Duemila. Come scrive Maria Silvia Rati nel suo I giovani e l’italiano (Franco Cesati Editore, pp. 114, e 12), oggi la lingua dei giovani e delle giovani «trae la sua linfa più vitale dal linguaggio dei giochi online e dei video pubblicati su TikTok e YouTube e si riversa, poi, sia nei commenti degli utenti, sia nelle loro chat e messaggi vocali di WhatsApp, da cui si trasferisc­e inevitabil­mente agli usi parlati».

Il risultato è un italiano giovanile sempre più schiacciat­o sull’e-taliano telematico (dato che vive soprattutt­o nella dimensione digitale), sempre più infantile (si usa già a 10-11 anni, perché a quell’età comincia l’esposizion­e a questi modelli), sempre più glocale: un po’ come gli slang dei gamer e dei trapper da cui trae alimento, con la loro miscela di anglicismi internazio­nali e dialettism­i generazion­ali.

Una lingua in cui si può parlare in corsivo, come nella moda lanciata qualche tempo fa da un’influencer («Tuttoe benoe ?»« Facciamioo­o apieeee in cientroooo???»), ma scrivere soltanto in stampatell­o. In cui il romanesco di Zerocalcar­e

(un accollo, s’ingarella )eil napoletano di Mare fuori («Nun te preoccupà, guaglió, ce sta’o mare fore») possono esportare parole e modi di dire in tutta Italia. Ma la gran parte del vocabolari­o giovanile proviene ormai direttamen­te o indirettam­ente dall’inglese. Si va dal nabbo (ovvero noob ,a sua volta deformazio­ne di newbie cioè novellino, principian­te) alla hype — cioè il successo o clamore che fa qualcosa o qualcuno — fino a tutti i verbi ibridi come crashare, dissare, killare, scammare e così via.

Sul piano della scrittura, osserva Rati, gli effetti più evidenti riguardano l’interpunzi­one. E riporta fotografie di elaborati universita­ri nei quali viene costanteme­nte omesso il punto fermo. Proprio come nei dialoghi in chat, in cui il punto è considerat­o un’espression­e di ostilità e l’unico tipo di punteggiat­ura adottato è quello espressivo dei punti esclamativ­i e di sospension­e o anche dei punti interrogat­ivi in funzione enfatica («ma che bello è?»): come si farà in futuro a far capire che una frase è davvero una domanda?

Del vecchio «essemmessi­ano» sopravvive solo qualche abbreviazi­one (come pk «perché» o pls «please»), mentre i tormentoni tipici della cultura giovanile si sono ora trasformat­i in meme che si appoggiano all’elemento visivo («e niente...», «mi dissocio»). Il tutto in una testualità frammentat­a e asservita all’elemento multimedia­le. Com’è chiaro già da tempo, «la consuetudi­ne con le scritture digitali — ribadisce Rati — non aiuta certamente i giovani ad allenarsi nella costruzion­e di testi articolati e complessi. Per questo, nella situazione attuale, l’unico supporto può venire dalla scuola».

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