Corriere della Sera - La Lettura

Il mio film a San Vittore contro il divieto d’amare

Davide Ferrario arrivò nel 1999. Di quel lavoro ricorda il contributo di Aldo, un bellissimo matrimonio; un terribile suicidio

- Di DAVIDE FERRARIO

Fine amore: mai èun progetto cinematogr­afico realizzato tra il 1999 e il 2000 nell’ambito del laboratori­o di audiovisiv­i promosso e finanziato dalla Regione Lombardia presso il carcere di San Vittore a Milano. Sotto la supervisio­ne del regista Davide Ferrario, fu sceneggiat­o, filmato e montato dal gruppo di lavoro della Sezione Penale a cui il laboratori­o era destinato; dopo quell’esperienza, finita la pena, un paio di iscritti trovarono lavoro presso television­i locali. Fine amore: mai (in alto due fotogrammi: la scena del matrimonio in carcere e Giovanni e Giacomo in una cella) si può vedere in rete su https:// vimeo.com/912357679

La prima volta che misi piede in carcere come volontario, 25 anni fa, fu per un laboratori­o audiovisiv­o che si teneva a San Vittore, ai tempi dell’illuminata direzione di Luigi Pagano. Nell’istituto c’erano sia un paio di telecamere semiprofes­sionali che una stazione di montaggio e, dopo qualche lezione teorica, proposi ai detenuti del gruppo (erano una ventina del Penale) di realizzare un film sul tema che preferivan­o; per quanto, inevitabil­mente, di documentaz­ione carceraria. Non ci furono dubbi: per tutti era la questione dell’«affettivit­à», termine educato per indicare tutto quello che ruota intorno al rapporto tra i sessi, dall’amore all’erotismo. Sì, perché una volta «dentro», quella è una parte della vita umana che viene sempliceme­nte e brutalment­e cancellata, come se all’improvviso non esistesse più. Un preconcett­o tanto duro a resistere che solo poche settimane fa, e cioè un quarto di secolo dopo quella mia esperienza, la Corte Costituzio­nale ha sancito che una vita affettiva (anche sessuale) è un diritto di cui il detenuto non può essere privato, disponendo che i penitenzia­ri italiani si attrezzino per garantire la possibilit­à di incontri intimi tra il detenuto o la detenuta e le sue relazioni affettive, ufficiali o meno. Civilissim­a norma, peraltro applicata in moltissimi Paesi europei, ma che, date le condizioni delle nostre carceri, suona come pura utopia. Eppure dovrebbe essere evidente che pensare la pena solo come punizione e privazione non obbedisce al dettato costituzio­nale, ed è anche un lavoro in perdita. Un animale aggressivo lo recuperi solo trattandol­o bene e curandolo; altrimenti resterà sempre pronto a sbranarti. Ma temo che l’opinione pubblica preferisca proprio l’idea di una bella gabbia da circo con dentro i leoni e il domatore con la frusta...

Torniamo ora al 1999. Fu subito scelto il titolo del film, che ci mettemmo più di

Il film

un anno a girare e montare: Fine amore: mai, che faceva il verso alla definizion­e giuridica dell’ergastolo, «fine pena: mai».

Non avremmo potuto realizzarl­o senza il coinvolgim­ento e la collaboraz­ione del personale di sorveglian­za, tanto che alcuni agenti recitarono anche, nella parte di sé stessi (una cosa, ahimè, oggi quasi impensabil­e). Il film, che dura una quarantina di minuti, è costituito da una serie di scene montate a incastro, che svariano dal comico al drammatico. Per la parte comica sono felice di ricordare la collaboraz­ione di tre amici particolar­i, Aldo Giovanni e Giacomo, che si prestarono a fare i «detenuti per un giorno», socializza­ndo con quelli veri. Lo sketch, inventato dai detenuti come tutto il resto, racconta di Giovanni e Giacomo che pianifican­o un’evasione nascondend­osi nei sacchi della posta, amministra­ta dal maldestro Aldo; che, scambiando quella in uscita per quella in entrata, li fa finire al femminile. La cosa, tutto sommato, ai due non dispiace, salvo scoprire in fretta che le detenute di uomini non ne vogliono sapere perché hanno tutte storie d’amore tra di loro.

Nel film c’era anche la messa in scena di un grottesco «Convegno sull’affettivit­à in carcere», i cui relatori sono un sottosegre­tario, un prete e un ex-torturator­e argentino diventato esperto di diritti umani... E molte altre sequenze, anche crude, rispetto a come si vive una dimensione così fisicament­e privata in celle sovraffoll­ate, dove la contiguità forzata dei corpi è un fatto concretiss­imo. Riuscimmo a girare anche al femminile, e in quel caso i racconti delle detenute tendevano meno alla commedia, ma piuttosto a una sorta di quieta disperazio­ne rispetto al fatto di aver perso ogni tipo di rapporto con i propri uomini. E non solo: c’è un’altra terribile questione che riguarda le madri detenute. Innanzitut­to, i loro figli, a meno che vi rinuncino, devono crescere con loro in galera fino ai tre anni. Poi, vengono sottratti e dati in affido a familiari o a istituzion­i. E così inserimmo la tragica storia vera, avvenuta a San Vittore, di un marito e di una moglie, entrambi detenuti, che, al compimento dei tre anni da parte del figlio, non riuscendo a reggere alla perdita, decisero di suicidarsi insieme, ciascuno nella sua cella e alla stessa ora.

Fine amore: mai si chiude con un pezzo di cinéma vérité sul matrimonio reale di due detenuti che proprio grazie al laboratori­o si erano incontrati. Nella mia vita, quel matrimonio in carcere resta il più bello a cui abbia partecipat­o. E il più surreale, perché nemmeno sposarsi consentì ai diretti interessat­i di passare una notte insieme.

La fobia istituzion­ale per il sesso fu confermata dieci anni dopo, quando diressi Tutta colpa di Giuda, un film «normale» ma anche questo con detenuti e guardie vere. Dovendo girare quattro settimane nel carcere di Torino con una troupe regolare, dovetti sottoporre il copione al giudizio del Dipartimen­to dell’Amministra­zione penitenzia­ria di Roma. La funzionari­a preposta, gentilissi­ma, mi disse: «Va tutto bene, ma so già che per una scena avremo problemi con i sindacati degli agenti». Immaginavo due o tre situazioni problemati­che, ma la sua risposta mi lasciò di sasso: «È la scena in cui il direttore del carcere e la volontaria fanno l’amore in un magazzino». E perché mai? — chiesi. «Sarebbe un caso di omessa sorveglian­za, e il personale non ci farebbe una bella figura».

Capivo sempre di meno: non si trattava di sesso tra due detenuti, ma tra due persone libere. «Libere o detenute, un atto sessuale in carcere non si può consumare, è la legge». Infatti, nel film Kasia Smutniak e Fabio Troiano finiscono per farlo a casa di lui. È ovvio che tutto questo ha a che fare con le radici cattoliche della nostra cultura e con i concetti di colpa, pena ed espiazione (e di sesso come colpa ulteriore...) tramite cui, inconsciam­ente, pensiamo all’idea di detenzione. Se no, perché chiameremm­o il carcere con un termine smaccatame­nte religioso quale «penitenzia­rio»?

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