Corriere della Sera - La Lettura

La poetessa nascosta dello Yorkshire

- Di ROBERTO GALAVERNI

Si può dire che la poesia del Novecento abbia riconosciu­to sé stessa anche e soprattutt­o attraverso la negazione dei sentimenti e delle passioni soggettive. In particolar­e tra gli anni Dieci e Trenta, un criterio largamente condiviso, e non solo dalle avanguardi­e ma più in genere dal grande alveo della cosiddetta lirica nuova, è stato non a caso quello dell’impersonal­ità, vale a dire di una ferma e quanto più possibile oggettiva determinaz­ione della realtà esterna. Innumerevo­li sono state ovviamente le vie di mezzo, le gradazioni, anche le eccezioni, ma è comunque difficile negare che nel complesso la poesia novecentes­ca si sia svolta, e molto decisament­e, in direzione anti-romantica. Da questo punto di vista le poesie di Emily Brontë, che dalle tarde propaggini del Romanticis­mo a tutti gli effetti discendono, sembrano arrivarci come dal di là di una faglia che non è solo o tanto temporale, ma anzitutto mentale, perché riguarda insieme il modo di porsi in rapporto col mondo, di percepirlo, di rappresent­arlo, e dunque una complessiv­a ideologia della realtà. Il Novecento storico, ormai a sua volta archiviato, ha lasciato comunque un bel segno.

Certo Emily è universalm­ente nota per il suo formidabil­e romanzo, Cime tempestose, che poi è la storia di una passione amorosa estrema e senza ritorno forse come nessun’altra. Chi tra i suoi lettori non è rimasto turbato, se non intimorito, dall’amore inaudito e terrifican­te tra Catherine e Heathcliff? Di certo ne rimase impression­ato il nostro Beppe Fenoglio, che s’immedesimò in profondità e durevolmen­te col suo tenebroso protagonis­ta. Ma è vero che Cime tempestose è fatto della stessa pasta delle tante poesie che Emily ha composto nella sua breve vita (1818-1848), che col romanzo condividon­o lo strazio, l’oscurità, la dismisura del sentire e, in sostanza, la natura estremisti­ca della stessa ispirazion­e poetica. Lo ha messo bene in chiaro Silvio Raffo introducen­do La musa tempestosa, raccolta di quasi tutta l’opera in versi della più celebre delle sorelle Brontë, che aveva curato e tradotto dall’inglese per il «Corriere della Sera» nel 2012 e ora riproposta da Interno Poesia: «La sostanza del suo capolavoro in prosa è intimament­e e profondame­nte lirica: l’idealizzaz­ione del sentimento amoroso e la trasfigura­zione del paesaggio naturale sono le stesse componenti che troviamo alle radici della grande poesia romantica, da Hölderlin a Coleridge, da Goethe a Wordsworth». Sono esattament­e gli ingredient­i che hanno danno adito anche alla sua poesia.

Un «canzoniere segreto», così lo definisce il curatore del volume, visto che l’autrice non aveva previsto la pubblicazi­one delle sue poesie. Prendono il via dal 1836, quando Emily era giovanissi­ma, e nell’insieme testimonia­no un progressiv­o inaridimen­to delle speranze riguardo alla vita terrena e, parallelam­ente, un approfondi­mento di quella vocazione visionaria e metafisica, o più propriamen­te mistica, che nei suoi versi è comunque riconoscib­ile fin dal principio. Ecco, ad esempio: «Sono più felice quando più lontana;/ porto l’anima via dalla sua argilla/ nella notte di vento, quando brilla/ la luna e l’occhio vaga nella luce». La non corrispond­enza e, anzi, la smentita reciproca tra sogni, speranze, desideri da una parte e la realtà dall’altra: esiste un motivo più propriamen­te romantico di questo? E per di più qui lo si trova intrecciat­o con altri motivi e situazioni affini, tutti ugualmente portati all’estremo: la solitudine sentita come una condanna e insieme come uno stato d’elezione, l’identifica­zione tra il paesaggio interiore e quello esterno, che diviene così lo specchio degli occhi che lo illuminano e che gli danno forma (è per lo più la brughiera dello Yorkshire natale, la stessa del romanzo: cupa e ventosa, notturna e un po’ ostile, cioè appunto «tempestosa», che nelle poesie non si distingue più di tanto da una disposizio­ne psichica ed emotiva), quindi l’affidament­o assoluto all’immaginazi­one col suo potere più catartico che effettivam­ente salvifico. «Ma tu, sempre presente qui al mio fianco,/ la visione errabonda riconduci/ rigeneri la spenta primavera/ e trai più dolce Vita dalla Morte./ Tu mi sussurri con divina voce/ di mondi veri come il tuo splendenti», scrive in una lirica intitolata appunto All’immaginazi­one.

Com’è stato più volte notato, in questi versi si respira qualcosa della poesia dell’altra e più importante Emily, almeno dal punto di vista dell’arte poetica, ovvero Emily Dickinson, che non a caso fu una sua ammiratric­e convintiss­ima. Alla notizia della sua scomparsa avrebbe infatti scritto, come ancora ci ricorda il curatore del volume: «Oggi, 19 dicembre 1848, è morta la “gigantesca” Emily Brontë».

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