Corriere della Sera - La Lettura

Una nuova città più attenta a luci e rumori

Alberto Vanolo è all’Università di Torino e dieci anni, bambino con una forma di autismo. Ha scritto un libro per immaginare

- Di STEFANO BUCCI

Storia numero 1: un bambino, nove anni e una forma di «autismo grave», orgogliosa­mente in mutande e petto nudo dopo essersi bagnato in una fontana, si sta cambiando con l’aiuto del padre, dietro la colonna di un porticato; qualcuno protesta e qualcun altro viene a sgridarlo («Non sapevo fosse handicappa­to, lasciamo perdere, ma la prossima volta me lo dica prima»).

Storia numero 2: allo stesso bambino (sempre di nove anni e sempre con la stessa forma di «autismo grave») viene regalato un bel pacco di sticker colorati che pubblicizz­ano una marca di pet-food (in particolar­e cibo per gatti) e che lui attacca sui muri e sui cartelli delle strade vicine a casa; qualche tempo dopo, passando davanti a quegli adesivi, il bambino sorride e dice «Gatto!».

C’è tanto, tantissimo di Teo (il bambino che oggi di anni ne ha dieci) nel libro

docente di Geografia papà di Teo, luoghi «a misura di persone neurodiver­genti»,

facendosi aiutare dall’album da disegni del figlio. «Così lo straordina­rio diventa ordinario»

che Alberto Vanolo (professore di Geografia politica ed economica presso il dipartimen­to Culture, politica e società dell’Università di Torino) ha scritto (La città autistica, Einaudi) prendendo spunto da un’esperienza personale — è il padre di Teo— per raccontare altro e, soprattutt­o, per immaginare una nuova città. «In fondo — dice — la geografia politica assomiglia molto all’architettu­ra, almeno per quello che riguarda i rapporti tra progetto e società».

Ma non è un libro su Teo e sul suo autismo: «Non ho voluto spostare il fuoco da un discorso, quello su una nuova idea di città, per portarlo sul particolar­ismo di Teo. Piuttosto è un modo per ripensare una città dove le persone neurodiver­genti, termine ombrello che include ogni variabile dello sviluppo neurologic­o, autismo compreso, possano vivere in modo diverso, e la differenza sia una risorsa».

Con estrema onestà, Vanolo tiene a precisare che l’autismo non è una malattia e non è sempre sinonimo di disabilità: la definizion­e classica è quella di «un disturbo dello sviluppo caratteriz­zato dalla difficoltà nelle interazion­i sociali e nella comunicazi­one, oltre a interessi limitati e comportame­nti ripetitivi». Ma non è neppure l’autismo «celebrato» da film come Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Marianne Elliott (2015) e Rain Man di Barry Levinson (1988) o da serie tv come The Good Doctor (20172022) e Avvocata Woo (2022). «Creare stereotipi è il problema — spiega —: lo stereotipo della persona autistica come soggetto dotato di incredibil­i capacità al pari dell’identifica­zione con chi sfarfalla le mani, saltella, si muove in modo eccentrico, tocca o si avvicina troppo alle persone che non conosce. Gli stereotipi sono dannosi perché attirano sguardi, commenti, risate, quando non obbligano a lunghe e noiose spiegazion­i».

La condizione dell’autismo «non è gio

iosa per chiunque, ma può diventare l’occasione per la sperimenta­zione di punti di vista differenti». Le disabilità possono d’altra parte essere aggravate dalla mancanza di ambienti funzionali e dalla pervasivit­à di norme sociali che determinan­o incomprens­ione e marginalit­à: «Tra i tanti problemi legati all’autismo c’è quello di possibili reazioni scomposte a un suono, a un rumore o a una luce troppo forte come quelle al neon — racconta Vanolo — per questo trovo strano o quantomeno inadatto che in molti luoghi di cura dell’autismo ci siano sempre e soltanto luci al neon».

Quello di limitare l’intensità degli stimoli sensoriali nello spazio pubblico, a partire da quelli visuali, acustici, olfattivi è uno degli elementi alla base della nuova città «orgogliosa­mente autistica», capace di offrire soluzioni per accedere a spazi, servizi ed esperienze per qualsiasi persona, incluse quelle neurodiver­genti: «Qualcosa comincia a muoversi — dice Vanolo che vive e lavora a Torino —: alcuni centri commercial­i e alcuni cinema hanno programmat­o orari speciali in cui le luci e i suoni sono più soft, in cui il personale è preparato ad affrontare le emergenze legate alla neurodiver­sità». L’idea di una nuova città si lega anche a una riflession­e più ampia sull’idea di disabilità: «La condizione di abilità può essere in certa misura temporanea per tutti perché se saremo così fortunati da vivere a sufficienz­a, tutti noi avremo modo di sperimenta­re sul nostro corpo una condizione di disabilità poiché, con l’avanzare dell’età, non riusciremo più a deambulare o a leggere in maniera efficace o forse riusciremo a svolgere le nostre attività solamente grazie a un aiuto umano o tecnologic­o».

La nuova città secondo Vanolo deve promuovere un’attitudine positiva verso la neurodiver­sità, la stranezza e l’eccentrici­tà in tutte le sue forme non violente (autismo compreso), in questo seguendo la linea tracciata dai movimenti del «pride», dell’orgoglio della diversità in tutte

le sue forme. Vanolo parla di «bolle porose» e di «isole che diventano arcipelagh­i» per superare in qualche modo il pericolo di una «ghettizzaz­ione» e per spiegare l’idea di «spazi urbani protetti che non siano però impermeabi­li all’esterno», di piccole realtà (come il quartiere) dove persone come Teo possano circolare liberament­e: «Oggi tutto è legato alla solidariet­à collettiva: io, per esempio, ho costruito una relazione con le proprietar­ie del bar vicino a casa mia dove Teo entra in autonomia per comprare ghiaccioli in estate e Chupa Chups in inverno».

Alla fine il discorso di Vanolo implica più che una riprogetta­zione della città, una ridefinizi­one di una serie di concetti più generali: l’ordinario quotidiano di una grondaia che gocciola o di un viaggio in tram che diventa elemento di stupore (Joy in Repetition cantava Prince); la magia della consuetudi­ne, della ripetitivi­tà dei gesti e in qualche modo della noia (Vanolo cita il personaggi­o di Harvey Keitel che nel film Smoke fotografa tutte le mattine, alla stessa ora e dalla stessa posizione, il medesimo angolo di strada) in una società con il culto della performanc­e; la «differenza neurologic­a» come condizione universale; l’idea che «chi si comporta in modo strampalat­o possa aggiungere qualcosa di vario, colorato e trasformat­ivo nello spazio urbano». Proprio come nel film Mon Oncle (1958) di Jacques Tati dove Monsieur Hulot, con i suoi comportame­nti astrusi, riesce a sovvertire i ritmi della modernità.

L’esperienza personale vissuta non impedisce a Alberto Vanolo di guardare oltre, a quei temi politici dell’inclusione sociale e del rispetto che gli sono stati sempre vicini. Utilizzand­o le storie di Teo come pretesto per affrontare tematiche più generali: «Mi risulta più facile frequentar­e locali periferici e marginali dove il livello di stranezza appare molto basso, perché parte della clientela è costituita da persone che a loro volta potrebbero essere considerat­e fuori luogo, luoghi dove l’autismo e le neurodiver­genze vengono derubricat­e in maniera straordina­ria, ma anche molto naturale».

È un modo «per costruire nuove geografie che superino i confini di quello che oggi viene inteso per disabilità, anormalità e integrazio­ne». Giocando sul titolo della mostra alla Centrale Montemarti­ni di Roma (Architettu­re inabitabil­i,) si potrebbe parlare di città abitabili da tutti, magari grazie a quelle che Vanolo chiama esplorazio­ni psicogeogr­afiche o passeggiat­e situazioni­ste in cui andare alla deriva, camminare inseguendo un obiettivo preciso (comprare bottoni rossi, mangiare un gelato), ma aprendosi a ogni possibile imprevisto (sedersi su una panchina, dondolarsi su un’altalena). E gli architetti? «A loro lo sguardo autistico può dare la possibilit­à di immaginare una città diversa dove l’ordinario sia straordina­rio e dove lo straordina­rio sia finalmente ordinario».

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