Corriere della Sera - La Lettura

La Francia vaa processo

Si contendono il 23 febbraio i César, gli Oscar del cinema d’Oltralpe: «Anatomia di una caduta» (Palma d’Oro e candidato a cinque statuette a Hollywood) e «Le procès Goldman». Sono, soprattutt­o, una riflession­e sul Paese. Parlano il regista Cédric Kahn e

- Di PAOLA PIACENZA

Nel 1957 il cinema americano produsse due indimentic­abili film di processo, due capostipit­i del genere: La parola ai giurati e Testimone d’accusa. Sidney Lumet e Billy Wilder. Nemmeno due anni dopo Otto Preminger consegnava alle sale Anatomia di un omicidio. Lumet, che dalle aule e dalle toghe non riusciva a stare lontano, nel 1982 avrebbe poi firmato Il verdetto con Paul Newman.

Che il cinema americano periodicam­ente scelga il tribunale come luogo ideale per riflettere sul mondo e sulle questioni che agitano la società è evidente( Kramer contro Kramer, Sotto accusa, JFK, Il processo ai Chicago 7... la lista è lunghissim­a).

Da questa parte dell’oceano sono soprattutt­o i francesi a farlo (bene) sin dai tempi di L’Affaire Dreyfus di Georges Méliès (1899). Due courtroom drama infatti si contendera­nno il 23 febbraio il podio dei César, con 11 e 8 candidatur­e: Anatomia di una caduta di Justine Triet che, dopo la Palma d’Oro a Cannes, ha mietuto successi ed è candidato a cinque Oscar — e Le procès Goldman di Cédric Kahn che, sempre a Cannes, ha inaugurato la Quinzaine des cinéastes.

C’è un precedente: poco prima, alla Mostra di Venezia, Saint Omer, di Alice Diop — che ha vinto il Leone della sezione Orizzonti e, ai César 2023, si è aggiudicat­o il premio per la migliore opera prima — ha invitato gli spettatori ad accomodars­i sugli scranni per giudicare una madre accusata di infanticid­io, più dalle parti della tragedia greca che di Hollywood, ispirato a un vero caso di cronaca del 2016 da cui la regista era stata «ossessiona­ta». I febbrili appunti presi durante il

Grande schermo

Regista e sceneggiat­ore, Cédric Kahn (nella prima foto dall’alto), 57 anni, esordisce come assistente di Maurice Pialat per Sotto il sole di Satana nel 1987. Tra i suoi film usciti in Italia, La noia (1998), dal romanzo di Alberto Moravia, Roberto Succo (2001) sul serial killer italiano e Fête de famille (2019) con Catherine Deneuve. Oltre a Le procès Goldman, distribuit­o da Movies Inspired, quest’anno vedremo anche Making of, passato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia. Arthur Harari — regista, sceneggiat­ore, attore di 43 anni (seconda foto dall’alto) — ha diretto i film: Diamant noir e Onoda-10.000 notti nella giungla (César per la sceneggiat­ura nel 2021). È compagno della regista Justine Triet e padre delle loro due figlie. È co-autore di due sceneggiat­ure con Triet, Sibyl (2019) e Anatomia di una caduta

La

Saint Omer dibattimen­to hanno formato l’ossatura del film.

«L’aula del tribunale è il luogo del grande disfacimen­to dell’intimo, della ricerca impossibil­e della verità», ha dichiarato Justine Triet che, con il suo film, ha contribuit­o a fare implodere la vocazione requisitor­ia del genere, di fatto la forma rispettabi­le del true crime, depurata dal voyeurismo. «Che il cinema francese si interessi alla parola è un dato», sostiene Kahn. Il suo film, ancora inedito in Italia, racconta il secondo processo, del 1976, all’attivista di estrema sinistra Pierre Goldman — fratellast­ro del più famoso chansonnie­r Jean-Jacques Goldman — accusato dell’omicidio di due farmaciste nel corso di una rapina, e già condannato all’ergastolo.

Non avendo a disposizio­ne i verbali dei processi (in quegli anni non si redigevano) il regista ha ricostruit­o l’andamento del dibattimen­to grazie alle minuziose cronache del tempo: le udienze erano affollatis­sime, soprattutt­o dall’intellighe­nzia di sinistra, con Simone de Beauvoir e Régis Debray spesso in prima fila. «In assenza di prove tangibili rimane solo il linguaggio — spiega —. Il linguaggio nell’arena di un processo è in grado di fabbricare punti di vista, di rimodellar­e la realtà».

Arthur Harari — parte in causa in entrambi i film candidati: co-sceneggiat­ore di Anatomia di una caduta (e compagno di Triet), in Le procès Goldman interpreta l’avvocato della difesa, Georges Kiejman — pensa che «in realtà in Francia si girino più commedie e film poliziesch­i che film di processo, ma non c’è dubbio che questi ultimi siano arrivati di prepotenza al pubblico; la stampa e la critica se ne sono interessat­e; ci sono state riflession­i. Sono film che raccontano molto».

Le procès Goldman racconta senz’altro moltissimo della Francia in cui si svolse e nasce dalla scoperta, in gioventù nella libreria della famiglia Kahn, del romanzo

che Goldman scrisse in carcere, Souvenirs obscurs d’un juif polonais né en France. «Sapevo che un giorno mi sarei confrontat­o con il tribunale», rivela l’autore a «la Lettura». In quel libro e nella storia di quell’uomo c’era molto più di quanto riassunto nei capi di imputazion­e: il riflesso di un’epoca con le sue utopie rivoluzion­arie, un clima di confronto ideologico molto teso. Come afferma l’avvocato Kiejman nel film, «Goldman è un uomo del XX secolo, figlio della Shoah, una passione per la causa latino-americana e l’anti-colonialis­mo, una tendenza al banditismo», e se il suo processo rappresent­ò la messa in scena di molte convulsion­i del secolo passato, è altrettant­o vero che il film oggi in qualche modo ci dice che «la Francia non ha fatto grandi passi in avanti dal dopoguerra: c’è nel mio Paese un razzismo residuale che si acuisce in certi momenti storici: questo è uno di quelli», afferma Kahn. «Le divisioni di quella Francia giscardian­a di centrodest­ra, bianchi/neri, borghesi/ proletari, provincia/élite, francesi/stranieri, sono le stesse attorno a cui ci arrovellia­mo oggi».

Quel processo polarizzò l’uditorio, come più tardi e in altre aule avrebbe fatto solo il caso O.J. Simpson: il fan club di Pierre Goldman che applaude i suoi interventi si contrappon­e agli hater, gli odiatori di profession­e, un divario che prefigura il tumulto in arrivo con i social network. Ma la lezione resta quella dei classici. La messa in scena di Kahn è all’osso, più austera di Triet e Diop: non si esce mai dall’aula, non ci sono flashback, niente musica, luce naturale. Persino il formato (4:3, quadrato, molto usato fino al secondo dopoguerra) contribuis­ce a produrre una sensazione immersiva, la stessa dei film di Lumet: «L’accusato, il pubblico ministero, gli avvocati non recitano per la macchina da presa, ma per il pubblico in aula, i figuranti», spiega Khan.

E l’altro pubblico, quello che guarda il film, è in aula insieme con loro. È a noi, gli spettatori, che il film chiede di giudicare se Goldman è innocente o colpevole, e ci consegna più di un dubbio sulla protagonis­ta di Anatomia di una caduta accusata dell’omicidio del compagno.

La scelta degli attori è in sé una dichiarazi­one di intenti: Arieh Worthalter e Arthur Harari, «perché non volevo nessun volto noto. La parola doveva essere l’unica vera protagonis­ta», dice Kahn. Non diversa da quella di Alice Diop: le due protagonis­te — Kayije Kagame e Guslagie Malanda — sono una performer e una curatrice d’arte.

Il giudice assolverà infine il rivoluzion­ario che propugnava la propria innocenza come un assioma — «Sono innocente perché sono innocente» — ma la libertà durerà poco: Goldman verrà ucciso tre anni più tardi in circostanz­e mai chiarite. «Il tribunale è per definizion­e il luogo dove la nebbia si dirada per fornire un’immagine definitiva. Ma quante certezze portano a casa gli spettatori dai verdetti? Per questo una Corte d’assise è un luogo formidabil­e per il cinema. Si può dire la verità, oppure mentire. C’è una drammaturg­ia, c’è spettacolo», spiega Harari.

Poco importa allora se siamo di fronte a un vero caso, come in Goldman e in Saint Omer, o a una vicenda di fantasia come quella di Anatomia di una caduta. «Tra i due tipi di film processual­i — quello in cui i pezzi del puzzle vanno a posto e quello in cui restano dei vuoti — per Anatomia abbiamo scelto il secondo», continua Harari. Non tutti i courtroom drama parlano di giustizia, allora. «E nemmeno la giustizia rende sempre giustizia», conclude Kahn. «La verità resta irraggiung­ibile quando un’intera società si immischia nel processo e si dibattono questioni oltre il caso giudiziari­o». Così è stato per un processo che ha prodotto libri (per esempio V13 di Emmanuel Carrère), ma che difficilme­nte diventerà un film, sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015: seduta di analisi collettiva, catarsi, funzione religiosa? «Fare giustizia vuol dire parlare del mondo, della coppia, di razza, di religione, di noi. Dipende dalla posta in gioco».

 ?? ??
 ?? ??
 ?? ?? (2023, nominata agli Oscar), e ha recitato in Sibyl e bataille de Solférino (2013) I fotogrammi Nella fotografia grande in alto: Arieh Worthalter interpreta Pierre Goldman nel film Le procès Goldman. Sopra il titolo, da sinistra: Guslagie Malanda sul banco degli accusati in e l’aula di giustizia di Anatomia di una caduta con Sandra Hüller (candidata a al César e all’Oscar come miglior attrice protagonis­ta)
(2023, nominata agli Oscar), e ha recitato in Sibyl e bataille de Solférino (2013) I fotogrammi Nella fotografia grande in alto: Arieh Worthalter interpreta Pierre Goldman nel film Le procès Goldman. Sopra il titolo, da sinistra: Guslagie Malanda sul banco degli accusati in e l’aula di giustizia di Anatomia di una caduta con Sandra Hüller (candidata a al César e all’Oscar come miglior attrice protagonis­ta)
 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy